D’altra parte, esistono presenze antiche, mai cancellate: non è il mondo contemporaneo l’origine dell’orrore. E in Recognition, il passato morto ha le fattezze del narratore: questo incontro/scontro con il cadavere di sé stesso, incarnazione di un mondo che forse non gli è mai appartenuto, è forse l’immagine più dura della raccolta, un momento di consapevolezza dopo il quale non si può tornare indietro. Difficile trovare una pacificazione, una riconciliazione, in queste poesie: non si potranno trovare luoghi protetti (fisici o intimi) dal conflitto col male esterno e interno.

I sonetti proseguono a raccontare sogni, incubi, desideri, visioni e memorie. Su tutto, ovunque riappare un prorompente folklore: mini-racconti pieni di nomi, strade, luoghi di ogni sorta che ricostruiscono un New England che si è da sempre confrontato con l’orrore al proprio interno, forse cercando di conviverci, forse soltanto di sopravvivere. Quel che è certo, nel mondo del narratore, è che la follia sembra essere diventata normalità: più che guardare indietro al classicismo, Lovecraft sembra guardare in avanti, verso Beckett e gli altri poeti dell’alienazione.

Della ballata popolare, però, rimane molto: appassionati e autori di rock (di heavy metal o altri generi), che hanno sempre guardato a Lovecraft, troveranno in queste poesie il loro miglior modello. Oscillando sempre fra soprannaturale e fantascienza, fra il passato e un “altrove realistico” non umano ma comunque non metafisico, si costruisce un’ambigua cosmogonia che, come sappiamo, ha al centro un “Caos idiota”, e di cui fanno parte ogni sorta di creature, esaminate una per una, che ritorneranno in tante altre opere (le note del libro sono esaurienti e dettagliate). In questi esseri e nei tentativi per sfuggir loro, si intrecciano le atmosfere del terrore e quelle del meraviglioso, come scrive de Turris nell’introduzione. Fra repulsione e fascinazione, tanti sono i sonetti e le immagini che restano nella mente. Su tutti, i Night-Gaunts, gli esseri dell’incubo, magri e notturni come dice il loro nome, muti e invisibili, inafferrabili come ogni creazione della psiche, e il più scoperto dei tanti momenti ironici, le Campane di San Rospo.

È in un’infinita ricerca di storie che si lancia il narratore di Lovecraft, infinita come l’abisso del pozzo senza fondo del sonetto omonimo (The Well), sempre sull’orlo della pazzia e di una consapevole estraneità anche alla comunità di appartenenza (Alienation). L’obiettivo, però, resta sempre quello di conoscere, e ancora più quello di raccontare.