Fra i contemporanei, ci dicono le lettere, a ottenere la sua piena approvazione è Robert Frost, che nello stesso passato letterario nazionale trova figure diverse come Emerson e Thoreau (apprezzati anche da Lovecraft), e che produce una visione più solare e piena di speranza: l’altra faccia speculare dell’orrore lovecraftiano. A questa improbabile coppia, come abbiamo visto in un recente Urania (n. 1520), ha reso un affettuoso omaggio Paul Di Filippo, residente della lovecraftiana Providence, che immagina lo scenario un po’ steampunk di una loro collaborazione nel mondo editoriale pulp (Scoperto il monumento al ripensamento, in L’imperatore di Gondwana): in forma di pastiche scherzoso, un riconoscimento degli stretti legami di Lovecraft con la cultura del suo tempo.

L’omaggio “postmoderno” di Di Filippo è un raffinato modo di ricordarci che, a ben guardare, Lovecraft mantiene un personalissimo rapporto con la modernità culturale americana, nelle strutture formali e nello scetticismo che accompagna tanta cultura statunitense passata, presente e futura: contro l’America presente, ma nel nome di valori “americani” apparentemente perduti ma ancora rintracciabili nella memoria culturale e nei sogni ereditati – o negli incubi. Anche per questo è giusta l’inclusione di due dei sonetti di Yuggoth (The Well e Alienation) in un’antologia poetica americana che ha il crisma dell’“ufficialità”, uno dei volumi dedicati alla poesia del novecento nella serie della Library of America (American Poetry: The Twentieth Century, Vol. I, 2000): il riconoscimento, sommesso e forse per questo ancora più solido, di un posto fra i classici della letteratura.

Del rapporto fra Lovecraft e la fantascienza contiamo di parlare in maggior dettaglio altrove, ma anche questa raccolta dimostra un’attenzione non casuale al repertorio scientifico e fantascientifico. Un precoce spunto di ispirazione, raccontano le dettagliatissime note con cui Sebastiano Fusco accompagna gli Orrori di Yuggoth, era stato fornito dalle prime speculazioni riguardanti un nuovo, lontanissimo pianeta del Sistema solare, giunte nel 1906 e salutate con entusiasmo da un sedicenne Lovecraft, appassionato astrofilo. La vera e propria scoperta di Plutone lo riempie nel 1930 di un entusiasmo ancora infantile, e lo conduce a identificare il nuovo pianeta con uno dei luoghi della sua immaginazione letteraria, Yuggoth, un nome che non era ancora comparso nei racconti pubblicati.

L’identificazione fra Plutone e Yuggoth apparirà di lì a poco, in uno dei suoi racconti più straordinari: The Whisperer in Darkness (1931), in cui un letterato e folklorista alla ricerca di fonti orali registra su un’arcaica bobina a rulli la voce degli alieni, e soprattutto scopre un mistero allo stesso tempo soprannaturale e scientifico, con esseri plutoniani nascosti nelle montagne del Vermont, in grado (fra le tante altre cose) di conservare, mantenendolo attivo e sotto controllo, un cervello umano attivo in un involucro artificiale. Alle origini della più postmoderna delle icone della fantascienza, c’è anche Lovecraft.

Qui, la dizione è barocca, spesso ricercata, talvolta arcaicheggiante. Bene ha fatto il traduttore a non cercare di mantenere le strutture del sonetto, scegliendo una scansione del verso molto libera, concentrandosi sul lessico e sulla serpeggiante costruzione della frase, cercando di ricrearli nella nostra lingua. L’effetto è spesso quello di una prosa in versi, felice e forse fedele all’autore in una maniera più profonda: grazie a questo libro e a Sebastiano Fusco, Lovecraft è un po’ più italiano.

Metaletterario come sempre nelle sue creazioni, Lovecraft mette la lettura di un libro come occasione iniziale. Forse una beffa, in parte una delusione (una verità che rivela l’orrore), ma comunque l’inizio di un “inseguimento”: la “pursuit” (è il titolo del secondo sonetto) del narratore richiama la pursuit of happiness, la ricerca della felicità, evocata nella Dichiarazione di Indipendenza americana. Niente squarci di cielo azzurro, niente redenzione, prosegue il sonetto: solo la follia. Anche la città di Arkham, come ci confermano le note di Fusco, ha più a che fare con le claustrofobiche atmosfere dei Misteri di Parigi, e i suoi paesaggi urbani sono sempre meno distinguibili da quelli di New York: la vecchia Nuova Inghilterra, ormai, non fornisce più alcun rifugio idilliaco.