Pezzi di arte locativa esposti in uno spazio elettronico che trascende i nostri sensi naturali. Una rivista dedicata alle nuove tendenze, che nessuno ha ancora mai visto ma che vorrebbe imporsi come l’equivalente europeo di “Wired”. Lingue artificiali figlie della rivoluzione informatica. Veri pirati e squadre della CIA sguinzagliati tra lo Stretto di Malacca e il Mar Cinese Meridionale, con l’incarico top secret di fermare navi da carico sospette per verificarne il trasporto e l’eventuale presenza a bordo di armi di distruzione di massa. Ma forse non solo. E una lotta senza quartiere tra due famiglie di spie, uomini invisibili di ardua collocazione nello schema delle cose emerso dopo l’11 settembre; ambigui tanto i presunti difensori della democrazia, al lavoro per “qualcuno del Governo”, quanto i presunti terroristi, guidati nei loro movimenti urbani dalla saggezza antica degli spiriti della Santería cubana e di un particolare manipolo di Orisha conosciuti come i Guerreros. Ecco gli ingredienti dell’ultimo, attesissimo romanzo di William Gibson, pubblicato l’anno scorso in America e Regno Unito con il titolo di Spook Country e giunto da qualche settimana sugli scaffali delle nostre librerie nella traduzione di Daniele Brolli.
Un romanzo che ripete fedelmente la formula collaudata delle trilogie gibsoniane: a un capostipite sostanzialmente unitario, incentrato sull’impresa di un singolo (Case nell’impareggiabile Neuromante per la Trilogia dello Sprawl, Chevette in Luce Virtuale per la Trilogia del Ponte), segue la prospettiva frammentata di una galleria di personaggi, con ritorni inattesi e nuove entrate che man mano arricchiscono il punto di vista del lettore sul mondo letterario messo in scena. E il progressivo svelamento della realtà rappresentata si compie nella morsa di un’architettura narrativa che non lascia scampo.
Con il tempo Gibson ha affinato la sua tecnica portandola a livelli di eccellenza, fino a destreggiarsi con un plot spionistico di non facile gestione. Nel presente romanzo, che continua a perlustrare il mondo post-11 settembre de L’accademia dei sogni riportando in scena, per qualche breve apparizione, la figura del magnate delle nuove strategie di comunicazione che ne muoveva i fili, l’autore americano trapiantato a Vancouver scava tenacemente nel rimosso del subconscio occidentale addentrandosi proprio nelle zone d’ombra della storia (“c’è una storia pubblica e una storia segreta” spiega un personaggio-ombra cruciale a un certo punto), senza timore di sondare gli eventi in corso di svolgimento; guerra al terrorismo inclusa, con conseguente stato d’allerta nazionale e soglia di paranoia pubblica ad altissimi livelli: si vedano le squadre Ercole in azione in pieno centro a New York subito dopo la scena clou della trappola nella trappola, architettata dagli improbabili sovversivi cino-cubani ai danni dei loro rivali pseudo-governativi. E il titolo originale dipinge alla perfezione questo scenario avvolto nella nebbia dei depistaggi e delle intercettazioni, una “guerra civile fredda” sul cui proscenio si muovono attori che sono come spettri, fantasmi elettronici e pedine consenzienti di un gioco più grande: Spook Country, paese di spie.
Non è solo l’America il bersaglio di Gibson. O meglio, non è solo la coscienza assopita degli USA, patria della defunta democrazia moderna, che Gibson va a disturbare. Il panorama impietoso che emerge dalle pagine di questo romanzo ha un respiro globale.
Tutto, come spesso accade nei suoi lavori, ruota intorno a una nuova tecnologia, uscita dai laboratori militari per finire presto al servizio di avanguardie artistiche da strada: “attributi cartografici dell’invisibile”, “ipermedia marcati spazialmente”, “l’artista che annota ogni centimetro cubo di un posto, di ogni entità fisica”. “Tutto questo era potenzialmente pericoloso… La rete telefonica, completamente digitalizzata e, immaginava lei, completamente intercettata”. E infatti nei sotterranei della nostra società dell’informazione e della comunicazione di massa si combatte la spietata guerra di spie di Gibson, i cui contendenti sembrano servirsi della presunta minaccia alla sicurezza nazionale per nascondere una trama occulta di macchinazioni ben più complesse, mosse dalla musica imperitura del profitto, lecito o illecito che sia. Una situazione ideale per portare in scena due gruppi ambigui, per molti versi riflesso l’uno dell’altro. Almeno fin quando le spie pseudo-governative non perdono il controllo e si fanno prendere la mano dalle loro ossessioni. E, nella classica dinamica dei doppi rivolgimenti, i loro nemici oscuri, in realtà transfughi della vecchia guardia risoluti a insinuare la loro esperienza negli ingranaggi delle nuove manovre occulte per il controllo globale, smettono la maschera all’acme della trama, al culmine della progressione più concitata e coinvolgente che Gibson abbia mai congegnato.
Questo lavoro di cesellatura del meccanismo narrativo, unito alla consueta abilità nel dipingere una variegata scelta di atmosfere (oltre a New York l’azione ha luogo a Los Angeles, passa per Philadelphia e Washington, attraversa l’America delle strade blu e converge su Vancouver, che torna protagonista dopo il sublime racconto del 1985 “Il mercato d’inverno”), trasforma il romanzo nella conferma che tutti ci aspettavamo dopo l’eccelsa prova fornita con L’accademia dei sogni. La conferma di essere di fronte a una svolta importante per uno degli autori più rappresentativi in circolazione, ma anche per un genere come la fantascienza, la cui ricaduta immaginifica sull’attualità è immortalata in questo libro con sconcertante e incontestabile chiarezza. Nell’ordito dei riferimenti alle icone della cultura di massa (River Phoenix e la sua morte assurda e ancora misteriosa ai margini del Sunset Boulevard, Helmut Newton e il “vago stile déco” dei suoi “nudi monocromi”, Guy Debord e la psicogeografia, William Burroughs richiamato addirittura fisicamente dall’aspetto del summenzionato vecchio che imbastisce la sua trama per contrastare i padroni delle verità ufficiali e, di conseguenza, della storia) non mancano lampi che potremmo definire autoreferenziali se ignorassimo l’impatto che le invenzioni precedenti di Gibson hanno avuto sull’immaginario – fantascientifico, ma non solo – di quest’ultimo quarto di secolo.
«Vedere-l’espazio-nudo» sentenziò Odile, «è rivoltante.»
«“Rivoltante”? Come sarebbe?»
«Vedere-l’espazio-nudo» riaffermò Odile, «rivolta tutto.» Fece un gesto con le mani che ricordò a Hollis, in una maniera vagamente sconvolgente, il modello di utero fatto all’uncinetto che l’insegnante di educazione familiare utilizzava come ausilio tecnico.
«È come se si rivoltasse su se stesso» propose Alberto, tentando una spiegazione. «Tipo “cyberspazio”. […] Si potrebbe quasi dire che è iniziata il primo maggio del 2000.»
«Geohacking. O perlomeno il suo potenziale. Il governo annunciò allora che i limiti d’accesso a quello che fino a quel momento era stato un sistema esclusivamente militare sarebbero stati eliminati. I civili furono in grado di accedere per la prima volta alle coordinate geografiche del GPS.»
Gibson che cita se stesso in un contesto già familiare genera un effetto di svelamento a cascata, una manifestazione progressiva dei connotati sempre più visionari del mondo che ci circonda, che sembra stia “mimando gli spasmi finali di qualche peste fantascientifica”. E l’autore rispolvera anche gli antichi interessi per i culti caraibici (altro esempio di commistioni tra culture, con caratteri ereditati in proporzioni uguali da visioni apparentemente in antitesi come possono essere il cristianesimo dei conquistadores e il paganesimo animista delle tribù africane), aggiornando i vecchi miti voodoo del cyberspazio ai codici della Santería cubana. Ma nei Guerreros del titolo non è difficile scovare vecchie conoscenze per il lettore più fedele, come la “reincarnazione” del Legba che aveva allungato la sua ombra transdimensionale nella matrice:
Eleggua che apre ogni strada, così come Ogún la spiana con il suo machete. Divinità del ferro e della guerra, del lavoro, detentore di ogni tecnologia. […] Al limite estremo della percezione stava Oshosi, il cacciatore, l’esploratore degli Orisha. Questi tre più Osun accompagnavano l’iniziato dei Guerreros.
E ancora, in un frangente particolarmente convulso, un saggio di ritmo che pare trasporre le cadenze ipnotiche del reggae già transitate per il suo dub di strada:
Accanto a Tito correvano gli Orisha ansimanti come cani: perlustrando e aprendo strade, aprendo e spazzando strade. E Osun, il cui ruolo rimaneva un mistero.
La consueta attenzione riservata ai più disparati frammenti della cultura di massa spazia da metafore scientifiche fulminanti (“Mentre mangiava, pensava all’eresia del Libero Spirito del XII secolo. O Dio era ogni cosa, credevano i fratelli del Libero Spirito, o Dio non era nulla. Secondo lui, all’epoca, la religione organizzata era una faccenda che aveva a che fare con il rapporto segnale-rumore, al contempo mezzo e messaggio, in un universo con un solo canale”) a richiami illustri: su tutti svettano James G. Ballard (il presidente in divisa da aviatore sul ponte di volo di una portaerei, ritratto in copertina dal “Time”, ma anche tutte le altre figure prese in prestito dallo star system che si inseguono lungo le pagine, a cui non è estranea per retaggio la stessa protagonista, Hollis Henry, freelance improvvisata e reduce di una rock band ormai sciolta ma il cui passato viene tenuto in vita dalla passione dei vecchi fan) e Thomas Pynchon (per i cambi di ritmo, le variazioni di registro, le ipertrofiche elucubrazioni dei protagonisti e la costruzione di personaggi presi di peso dalle schiere dei “preteriti”).
Gibson nutre la stessa simpatia di Pynchon verso i preteriti, le vittime della storia, tagliate fuori da qualsiasi possibilità di contribuire alla Grande Marcia verso il Domani. Il futuro, risucchiato dalla nostra realtà, ha lasciato le nostre vite in preda al vuoto della dea Ochún, “colei che i cattolici veneravano come Nostra Signora della Carità del Cobre”, la cui energia si equivale a quella di Eleggua, Colui Che Apre la Strada, senza d’altra parte riuscire mai a bilanciarla al punto da parificare i rapporti. E proprio come la musica suonata di nascosto da Tito, la scrittura di Gibson sembra nascere con un intento preciso, quasi una missione in questi tempi devastati: “se avesse suonato bene, avrebbe riempito il senso di vuoto di Ochún”.
Forse non si tratta proprio di un canto di speranza e nemmeno di fede cieca nella giustizia compensatrice, ma se non altro resta vivo, nella notte dei fantasmi, un barlume di redenzione. Per raggiungerlo, sembra suggerire William Gibson, basta percorrere fino in fondo il sentiero della rivincita.
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