Piano meccanico è stato scritto nel '52 immaginando un futuro che poteva essere il nostro, un mondo popolato di torni, tagliatrici, nastri scorrevoli, valvole e resistenze. Strumenti obsoleti, anche per un libro di fantascienza. Potrebbe quindi sfuggirci un sorriso di compatimento: "Buon Vonnegut, stavolta hai mirato troppo in basso". Una considerazione che non mi sento di condividere, così come sarebbe riduttivo pensare a questo romanzo come a una semplice speculazione sulla società industriale post bellica. E' una storia ancora attuale: tolti i lustrini dell'informatica, del digitale e della new economy si realizza velocemente che il nostro tempo è saldamente ancorato al tondino d'acciaio e al lurido barile di greggio. Attuale è anche il rapporto macchine e occupazione. Tutti ricordano i robot ballerini del reparto di montaggio della Fiat, un'atmosfera degna di Odissea nello spazio; anche se molti ignorano "l'atmosfera" che ancora oggi respirano gli operai del reparto vernici lì a fianco. L'automazione selvaggia non fa ancora parte dei nostri scenari. Non c'è da stupirsi, finché si troveranno bambini disposti a cucire palloni tutto il giorno per pochi centesimi.

Vonnegut racconta come dopo la guerra (non specifica quale) negli Stati Uniti abbia preso il sopravvento la cultura tecnica, riuscendo con la sua efficienza e precisione a scalzare le elités dirigenziali dei militari e dei politici. La manodopera elementare infatti è stata sostituita da macchine e da processi automatizzati, le tute blu sopravvivono in un bislacco servizio di manutenzione detto "Puzzi e Rottami", oppure nell'Esercito, che ha il compito di vigilare sullo status quo. Due servizi che in realtà servono a tenere occupate masse di sfaccendati colpevoli solo di non essere abbastanza intelligenti, o meglio di non superato un rigido test attitudinale.

Chi si attende la cronaca di una rivolta selvaggia contro il dispotismo razionale delle macchine, dovrà ben presto ricredersi: l'azione stile Ned Ludd non arriva che dopo pagina 200. A Vonnegut serve tempo per descrivere una società imprigionata nell'immagine del proprio progresso, una società dove l'automazione (niente androidiŠ per il momento) ha cambiato radicalmente i sogni e le aspirazioni dell'uomo.

Il mondo lo vediamo attraverso gli occhi di Paul Proteus (forse una contrazione di Prometeus? Mah!), un giovane e promettente ingegnere ad un passo dalla promozione che lo consacrerà nell'olimpo dei dirigenti. Per i colleghi è già un piccolo mito, la bellissima moglie lo asseconda e lo sostiene, i superiori lo stimano, che altro desiderare? Proteus infatti è inquieto, percepisce una zona d'ombra nel suo luminoso destino, qualcosa che è assolutamente distante dalla sua linda esistenza nel paradiso degli uomini e delle macchine. Fuori dall'ordine degli stabilimenti e dalla pace di casa sua c'è la città dei reietti, ossia la gente prima costretta a guadagnarsi il pane con le mani e ora costretta in un limbo di inattività rancorosa. Di fronte al loro scontento il disagio del giovane ingegnere è palpabile, poiché rappresentano una crepa evidente nel suo sogno di una nuova età dell'oro. Gradualmente Proteus si rende conto di vivere in una gabbia dorata e in lui matura il desiderio di cambiare. Non è semplice però uscire dall'ingranaggio, abbandonare i binari di un'esistenza già calcolata. Alcuni amici e alcuni eventi inaspettati faranno maturare in lui l'estrema decisione: rivoltarsi, spezzare l'incipiente dittatura delle macchine. Come Neo per Matrix, Proteus è l'eletto, la figura che può riscattare l'umanità dall'oblio.

In questo scenario Vonnegut ci offre un bel campionario di paradossi (imperdibile il dirigente che perde il posto dopo aver suggerito un sistema che rende inutile il suo lavoro) e satiriche stilettate. Episodi in buona parte legati alla visita di uno scià, dispotico sovrano d'uno staterello oltre i confini del modello meccanocratico statunitense. Ebbene questo rozzo individuo dal vocabolario limitato riesce in più occasioni a mettere in difficoltà le sue guide impegnate a magnificare i risultati della democrazia alla luce della seconda rivoluzione industriale. La sua miopia non viene fuorviata dai lustrini del progresso e colpisce nel segno quando vede una società di schiavi, abbruttiti da un crescente complesso di inferiorità per le macchine. Dall'altra parte ci sono gli ingegneri che ormai costituiscono una casta a sé, hanno loro le leve del potere, e pur continuando a magnificare l'impegno per la salute e benessere per l'umanità, di fatto non tollerano interferenze nel "sistema".

Il raduno dei dirigenti ai Meadows ha il tono tragicomico di un concilio di sacerdoti con tanto di rappresentazioni rituali e simboliche (lo spettacolo, le regole, i giochi, la quercia). L'atmosfera che si vive è un continuo incitamento alla competizione fisica e mentale, ad un obiettivo irraggiungibile che sta sempre più in alto. Machiavelli sosteneva che il fine giustifica i mezzi, la prospettiva del "Piano" sembra essere quella di un eterno mezzo senza alcun fine. Proteus se ne accorge e cerca con la sua ribellione di dare un anima alla macchina, o meglio un fantasma, perché, suo malgrado, deve accettare che il vecchio spirito del pioniere, dell'uomo intraprendente e indipendente, è morto. Se mai c'è stato.

Il finale, con l'attesa e auspicata rivolta, non si risolve in un tripudio di fanfare, ma lascia aperte diverse prospettive. Cosa attende l'umanità? Un futuro stile Borg, con una interazione sempre più stretta fra uomo e macchina, quasi simbiontica? O forse la schiavitù, modello Matrix per intenderci, con l'avvento di una nuova forma di intelligenza?

Vonnegut non indica soluzioni, ma segnala rischi e contraddizioni, alla maniera dell'oracolo, che non dice, ma suggerisce. Occorre forse guardare alla totalità del suo racconto per cogliere il suo messaggio e leggere una speranza affidata alla fallibilità, alle debolezze, all'istinto, insomma una fede nella naturale anarchia che è salda componente del genere umano.