E così sia io, sia Taylor, sia Jones, sia Braddy, ci chiamiamo in questa maniera per abitudine e praticità, non perché si creda veramente ai nostri nomi. Un giorno o l’altro (che buffo parlare di giorni in questa infinita Notte dello spazio) potremmo decidere di scambiarceli e allora, magari, a me capiterà quello di Jones e a lei il mio e pensate che ridere se mi trovassi anche le sue tette.
Più tardi cenammo, o pranzammo, come preferite. I giorni e le notti sono un’unica creatura, le stelle e il vuoto sono tutto.
— Ho dato un’occhiata al satellite — disse Brady tirando fuori la bottiglia delle grandi occasioni. Spiegò che il danno era una cosa seria e che l’agenzia di manutenzione ci avrebbe messo meno tempo a costruirne uno nuovo che a riparare questo che si era guastato, probabilmente a seguito di una collisione con il pulviscolo pietroso che gravita attorno all’atmosfera di Magellano 7. Al termine, tirate le somme del discorso, brindammo alla futura missione di rimpiazzo del satellite che, in qualità di nave recupero, ci eravamo assicurati.
Dopo il brindisi ci fu un momento di singolare euforia. Invece che quattro soltanto sembravamo una dozzina, e le nostre voci e le nostre ombre erano dappertutto. Ballammo e bevemmo come se da trentasette anni e nove mesi a quella parte non lo avessimo mai fatto, e poi ci fermammo di colpo e ci guardammo, più tristi di quando avevamo cominciato.
Ci fissammo a lungo, in silenzio, come per punirci di qualcosa, e le stelle fissavano noi come sempre, discrete nella loro ossessiva presenza.
Alla fine Taylor disse: — Bene, gente. Tra dodici ore penetreremo nell’atmosfera di Magellano. Fino ad allora siete liberi di spassarvela come meglio credete.
Io sogghignai coprendomi la bocca. Non che non apprezzassi i suoi tentativi di sollevare il morale della truppa, ma davvero non capivo come un uomo come lui, veterano dello spazio, credesse ancora a quelle scemenze. Ma forse non ci credeva veramente, era solo che, in qualità di capitano, si sentiva in dovere di farlo credere a noi altri… il che era anche peggio.
Noi tre ci guardammo in faccia mentre Taylor si alzava e s’incamminava verso gli alloggi. Non vorrei dirlo, però forse avete capito lo stesso… Sorrisi a Jones e poi a Braddy, gli battei una mano sulle spalle - io, questa volta - e me ne andai. Che almeno due di noi si divertissero un po’ in quelle dodici ore che restavano, che diavolo.
Magellano 7 è un posto schifoso, inutile che ve lo descriva. Nessuno con un po’ di sale in zucca lo sceglierebbe mai per un fine settimana, e chi ci capita per lavoro è troppo preso dai suoi affari per curarsene. Ad ogni modo basta uno sguardo anche distratto, per capire che non è fatto per l’uomo, e chi ci vive non so come faccia.
Ci sbarcammo che era da poco spuntata l’alba, un fenomeno diverso da quello della Terra, dipinto di cremisi invece che di rosa, e con tante nubi dello stesso colore da tutte le parti, talmente tante che sembrava di essere scesi nel mezzo di una tempesta.
Consegnammo i documenti di sbarco e ci avventurammo per la City. L’aria odorava di pesce, di colla di pesce per la precisione, e bisognava continuamente mandar giù la saliva o sputare, oppure indossare una delle maschere-filtro che vendevano allo spazioporto a “soli” 25 crediti.
Decidemmo di mangiare la saliva e di sporcare le strade della City, in fondo saremmo rimasti giusto il tempo di capire ch’era molto meglio lassù, in assenza di affanni quotidiani e cattive compagnie.
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