Ma con lei, la solitudine amica che gironzola tra le stelle e nei nostri cuori, tutto è diverso, più importante. Come il sale in cucina, non so se mi spiego. Quella cosa che dà sapore e che non deve mancare mai e in nessun luogo più della camera di decompressione lei vive in te e non ti lascia fin quando non ti accorgi che è lì e l’accetti, le sorridi.Così stavamo lì, Braddy ed io, e sapevamo che sarebbe venuta. Braddy disse: — Non dovremmo uscire? — Chiuso nella sua tuta d’argento somigliava a un bambolotto grasso e impacciato.Sapevo che qualcosa lo frenava e che aveva detto quella cosa per trovare in me un appoggio, un aiuto alla sua solitudine. Era schiacciato in un angolo e le stelle si trovavano a soli dieci centimetri da lui, oltre la paratia stagna.
Lo fissai e gli risposi: — Quando vuoi — e lui abbassò la leva rossa e ci fu il sibilo dell’aria che se ne andava e lo sportello si aprì.
Si voltò e disse: — Andiamo — ma lo diceva a sé, se capite cosa voglio dire. Era lui che doveva trovare la forza.
Uscimmo nello spazio amico e fu come se ci fossimo calati all’interno di una bottiglia vuota, col fondo ambrato che funziona da lente e fa sembrare le cose diverse da come sono, smuovendo le certezze di tutti i giorni.
Vedevamo le stelle rilucere e tremolare, accendersi dei nostri desideri e volare via, nel silenzio che formava il Niente.
— Spike — disse la voce di Braddy, — tu lo sai di cosa parlo… ma non ti sembra che ci sia qualcuno, qui con noi?
Sorrisi all’alone umido che ricopriva il vetro del casco. — Proprio così, Braddy. Come durante il lungo sonno. Ci siamo noi e le nostre fantasie, chiamale come ti pare. Ti fanno paura? — La mia voce risuonò per un po’ nella quiete della Notte, poi si perse nell’infinito.
Vidi Braddy compiere una piroetta, danzare senza peso come le illusioni che si portava dentro. — Un po’, però è bello. Niente lo è altrettanto.
Annuii tra me. Non sarebbe stato carino aggiungere altro. Braddy aveva detto l’essenziale, e nel silenzio dello spazio le parole di troppo sono qualcosa di proibito, un insulto alla poesia dell’Universo. Dissi soltanto: — Recuperiamo il disperso — riferendomi al satellite.
E nuotammo verso di lui, verso le stelle, e tutto ci pareva non dovesse finire mai.
Tornammo a bordo un’ora più tardi, che non so a quanto equivalga lì sulla Terra, ma comunque molto di più. Vedete, il tempo non è un granché, quassù. Voglio dire, non è che uno si accorga del suo trascorrere… è facile comprendere il motivo. Qui nello spazio il tempo si è fermato, l’Universo viaggia e noi dentro di lui, ma siamo fermi, ecco cosa intendo, come tanti moscerini nell’occhio del gigante. Andiamo dove lui ci porta, è questo veramente, nel tempo senza tempo, che esiste da sempre e nessuno sa quando finirà, o se finirà, o se davvero è mai cominciato.
Il tempo è sospeso, dunque, e noi dentro di lui, come nelle vasche ibernanti. Le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non sono che parole vane nello spazio, ricordi di un’altra dimensione. E forse noi siamo altrettanto, parole vuote voglio dire, perché no? A impedircelo potrebbero essere proprio loro, i ricordi, ma si sa che col tempo anche questi sbiadiscono e poi muoiono, se ne vanno e non tornano indietro, così noi, viaggiando nel tempo, finiremo col perderli tutti e a non ricordare altro che la solitudine, almeno lei.
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