Non è la prima volta che si pubblicano libri dedicati alla descrizione se non classificazione di un genere particolare di creature: gli animali inesistenti, ovvero di pura fantasia, “creature increate”. Potrebbero apparire, queste pagine, un puro gioco privo di senso, ma non è un caso che volumi del genere portino firme anche illustri: bastino Jorge L. Borges e il suo Manuale di zoologia fantastica, il Bestiario di Julio Cortázar, il Bestiaire ou cortège d’Orphée di Apollinaire, l’Ailleurs di Henri Michaux e – per restare in ambito di fantascienza italiana - I Rinogradi di Harald Stümpke e la Zoologia Fantastica di Massimo Pandolfi, o il racconto Antropologia fantastica di Giuseppe Lippi. E’ recentemente uscito per i tipi di Carabba Editore Animali della quinta notte, di Bruno Pompili. Docente di Lingua e letteratura francese presso l’Università di Bari, fondatore del CRAV (Centro Ricerche Avanguardie, Bari), promotore e coordinatore dei corsi di perfezionamento Letteratura e Arti delle Avanguardie storiche e del Novecento, Pompili ha al suo attivo una nutrita bibliografia concernente saggistica, narrativa, poesia. Nella sua prefazione, Massimo Del Pizzo, autore dell'interessante prefazione, fa rilevare, citando lo stesso Pompili, come secondo questo autore la scrittura non possa essere un percorso “per manifestare un’esperienza vissuta, forse chiusa, ora ridetta ed esposta in modo sostitutivo del già avvenuto o dell’irrimediabilmente racchiuso nel passato”. Poesia e racconto, aggiunge Del Pizzo, “devono stare piuttosto sull’abisso dell’invenzione e della ricerca, non per descrivere il noto ma per trovare quanto è nascosto, ovvero non esiste.”
Va da sé che una letteratura del genere, pur rifacendosi – nel caso di Pompili – alle avanguardie e segnatamente al surrealismo, può rientrare (almeno dal nostro punto di vista) nel genere fantastico, talora nel fantascientifico. Ancora Del Pizzo: “In verità Pompili non inventa animali fantastici, bensì li trova (non si può inventare nulla che già non esista): li scova mimetizzati o imprigionati in un ganglio di parole e, una volta trovati, li libera soprattutto dal luogo comune e dall’ovvio, i nostri peggiori nemici. In Animali della quinta notte la scrittura imita la forma impassibile della scrittura scientifica, ma poi si inabissa nel raffinato nonsense e quando ne riemerge è prosa poetica”. Queste immaginarie (ma vedremo fino a che punto) creature “possono essere collocate solo in un ecosistema mentale”; e comunque per Pompili “aprire la caccia all’inesistente o all’improbabile è un’ambizione sproporzionata alle forze disponibili; lasciare ciò che c’è là dov’è, e non trasportarlo truccato o travestito in un luogo di parole, in un tempo di finzioni”. Dal che si desume come mai “animali della quinta notte”: ripescati cioè da un interstizio della Creazione, nel buio tra i fatidici Quinto e Sesto giorno…
L’Indice del volume snocciola pertanto una rassegna di esseri, “ignoti” in quanto essi denunciano appunto la nostra ignoranza quanto alla loro presenza: il Platicauda, il Kynosauro, l’Aquila arcobaluna, l’Onirofiore, il Pesce clessidra, la Sphinx metapontina, perfino l’Homo labilis, sono un accenno a un campionario che annovera una quarantina di misteriosi vicini di casa (o di anima). L’Homo labilis, per esempio, è divenuto tale per una sua incompatibilità innata con la Parola: e dunque una sua parte è divenuta silenzio, infine assenza, o inesistenza. “Una piccola quantità di sogno fermenta, ma resta poca realtà”. La sua metamorfosi finale lascerà intravvedere “una variante facile da stabilizzare: l’Homo labilis duplex, particolarmente abile a mentire con le parole, fino a crederle”. Quanto al Pesce clessidra, è così chiamato “per il suo ritmico rovesciamento testa-coda, alto-basso, a intervalli rigorosamente scanditi”. Ma quando si avvicina il momento della sua morte, “di cui non sa nulla”, ecco che “il ritmo del rovesciamento si accelera”: quasi che esso (diremmo) velocizzi e consumi da se stesso lo scorrere del suo tempo residuo (in questo senso, il Pesce clessidra sembrerebbe morire sempre e solo per suicidio). Invece il Piteco fantasma speculum è un’incognita fin dalla sua venuta al mondo: all’atto del parto nasce come sola creatura ma subito si separa in due esemplari, identici alla vista. Difficile individuare quale sia l’originale; per di più essi hanno un comportamento simultaneo. Ma quando si separano si scopre subito l’originale, che “ha comportamenti motivati e coerenti, mentre il suo doppio distante finisce per agire in modi percepibili come immotivati e incoerenti” (volendo usare una metafora scientifica, potremmo richiamare il fenomeno – a sua volta tuttora circondato da mistero – dell’entanglement, nella fisica dei quanti). Circa la Leptoderma luna luna, si tratta di un pesce (dapprima noto come Pesce luna) che “ondula nell’acqua suscitando spenti riflessi, tenui riverberi e finisce con l’apparire doppio e triplo realizzando nell’acqua cerchi e rotondità.” Ma a volte esso “suscita forme liquide di un corpo umano femminile, dai glutei vistosi, seni evidenti quanto compatti”, trasformandosi in una sirena che come tale appare e scompare… Esiste, non esiste? “Il meccanismo del fantasticare ha rallentato l’accertamento dell’esistenza fisica di questa creatura”; ma di essa si è molto sussurrato nelle notti, nelle taverne, “fra uno sbarco e un imbarco (…) E’ dunque così che le segnalazioni della Leptoderma luna luna hanno mantenuto una consistenza”.
Consistenza, inconsistenza, inesistenza… Le pagine di Pompili sono gioco di parole e di concetti, ma sottile e raffinato, nutrito di sillogismi, similitudini, paradossi, analogie, allegorie; liberazione delle potenzialità immaginative dell'inconscio per indagare “oltre” la realtà (la cruda materia è la nostra prigione). Creature che hanno vita ma probabilmente non esistono, o imprimono un’esistenza in quanto ricordi o visioni per gli osservatori (o sognatori). Creature increate, dicevamo, in precario equilibrio su memorie false o perdute o future, desideri dell’impossibile; inammissibili errori della divinità creatrice, a loro volta specchio di mancanze dell’umano. Infine: testimonianze della divina – o più sommessamente demiurgica – facoltà dell’incompleta creatura Homo sapiens d’evocare alla vita forme che restano vita a metà.
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