Il primo grande romanzo post 11 settembre è stato scritto e porta la firma di Jonathan Safran Foer. New York, 2001. Oskar Schell, nove anni, si reca al funerale del padre: quella che viene interrata è però una bara vuota perché i resti dell’uomo, scomparso insieme alle Torri Gemelle, stanno ancora fluttuando organicamente nell’aria della città. Lo sa bene il ragazzino, alle prese con malcelato dolore, che fa una scoperta singolare: nel ripostiglio di casa c’è un vaso azzurro, e dentro una busta, e dentro ancora una chiave. Ma chiave di cosa? Oskar ha in mano solo un nome, “Black”, decide quindi di interpellare tutti i mister e miss Black della Grande Mela. Ne è consapevole: sciogliere il mistero è l’unico modo per accostarsi nuovamente al genitore scomparso.
Ancora i giovani scrittori americani (l’autore è classe ’77) a segnare il passo, a muovere in avanti e decifrare minuziosamente il contemporaneo: esattamente come Dwight Wilmerding, protagonista di Indecision (www.fantascienza.com/magazine/libri/9299), che scambiava l’attacco alle Torri per i postumi delle amate pasticche.
Il libro di Safran Foer è molto più complesso: inizia focalizzando internamente al bambino, in prima persona, ma poi azzarda il costrutto di almeno quattro stili differenti. Su diversi livelli spaziali e soprattutto temporali, in continua altalena tra loro, accadono le vicende epistolari della nonna e del nonno di Oskar, che scrivono rispettivamente al nipote e al figlio, Thomas Schell, la vittima del 9/11; ma ampie e avvolgenti sono anche le parentesi dialogiche, come l’ultimo racconto del padre alla prole, ovvero la favola sempreverde del mitico sesto distretto di New York. E’ così che, in questa elegante scrittura alternata, si annodano passato e presente, temi e allusioni, che da singole tessere associano per comporre il telaio della Storia: il bombardamento alleato di Dresda, l’atomica su Hiroshima e lo schianto delle Twin Towers nella stessa ottica continuativa, il 1945 come il 2001, a formare un accostamento complesso, spiazzante perché provocatorio (Il protagonista: “Le ombre hanno fornito un’indicazione dell’altezza dello scoppio della bomba, e il diametro della palla di fuoco nel momento in cui ha esercitato il massimo effetto carbonizzante. Non è affascinante?”… di cosa sta parlando?).
Molto forte, incredibilmente vicino punta alto: con occhi da bambino – tutti i capitoli di Oskar sono impasto inedito di dolore e tenerezza, lutto e fantasia, lacrima e risata – vuole fare l’autopsia dell’oggi, ecco quindi una galleria umana dolce, ruvida, tenera, incazzosa, dunque indimenticabile. Il fanciullo non riavrà suo padre ma scopre in viaggio che esiste altresì l’insoddisfazione, la delusione, la solitudine, il divorzio, insomma molti dolori logoranti; tutti i Black di NY, i signori neri della città, non lo aiutano come lui si aspetterebbe ma lo aiutano comunque e risultano decisivi.
E quella chiave cosa apre? La storia finisce bene o male? La conclusione è dirompente, ma non posso dirla; meglio rilevare la profonda riflessione sul linguaggio, che mette radici nella pratica dello storytelling, e il mutamento di registro costante. L’autore non dà tregua, dalla fantasia spericolata alla pretesa scientifica (geniale e commovente la citazione a Stephen Hawking), dalla sentita rievocazione fino al sentimentalismo esangue, in un cammino pieno di piccoli enigmi e minime sorprese che gradualmente si spogliano del lato occulto e infine si mostrano, riponendo pienamente ogni ambizione dell’autore. Una rete di allusioni ci attira in trappola: non c’è più la famiglia tradizionale. Il padre è defunto, il nucleo dissolto, il dolore totale ma forse, recuperando i legami genealogici perduti e costruendo un nuovo nucleo di affetti – attenzione alla figura di Ron -, a piccoli passi domani si potrà proseguire. Oskar è un freak, è segnato, diverso dagli altri, ma almeno ricomincia a camminare.
Safran Foer, oltretutto, comprende perfettamente il valore dell’oggetto “libro”: non solo scrittura, ma anche disegni, foto, figure, indizi costellano il narrato e imprimono un’impronta costitutiva, declinandone gioiosamente il volto sperimentale. Vietato sbirciare nelle ultime pagine: togliereste l’incanto a una delle sorprese più magiche e strazianti che si ricordino.
Lo scrittore, dopo Ogni cosa è illuminata, sceglie un altro titolo evocativo: molto forte e incredibilmente vicino è il boato delle Torri, il suono della guerra ma anche il movimento del cuore, la determinazione a continuare, il ricordo intimo dei nostri cari scomparsi.
Oskar: “Sarebbe pazzesco se ci fosse un grattacielo che va su e giù mentre il suo ascensore resta fermo. (…) Sarebbe anche utile al massimo, perché se sei al novantacinquesimo piano e un aereo si schianta sotto di te, il palazzo ti può portare a terra e tutti si salverebbero anche se quel giorno avessero lasciato a casa la camicia di becchime”.
JONATHAN SAFRAN FOER, Molto forte, incredibilmente vicino (2005) – Drammatico – Edizioni – Collana – 2007 – pagine 384 – traduzione - prezzo 9,50 euro
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