Ecco pertanto che la cantilena di Cortman improvvisamente suona completamente differente: “Vieni fuori, Neville… Unisciti a noi”. Ma è un invito bugiardo perché impossibile da attuare. Così come Dracula, non potrebbe essere accettato in un mondo basato su telefoni cellulari, internet e fast food, Robert Neville, in quanto “semplice” essere umano, è destinato a diventare un disadattato in un mondo costruito da vampiri mutati. La condanna della diversità viene quindi ribadita come un requisito fondamentale di qualunque organizzazione sociale, il mancato adattamento a regole di vita e sociali viene visto come un pericolo da sconfiggere. Alla fine la nuova razza di vampiri decide di giustiziare Neville non tanto per vendetta rispetto alle decine di omicidi di loro simili che l’uomo ha perpetrato, ma perché la semplice presenza di un diverso non è tollerabile; la speranza di Neville di tornare a una vita normale si infrange contro l’improvvisa rivelazione; ormai è lui ad essere il diverso, il mostro, l’animale da eliminare a qualunque costo. La consapevolezza del rovesciamento dei ruoli irrompe nell’ultima indimenticabile scena del romanzo: Neville vede negli occhi della folla di vampiri in attesa della sua morte lo stesso orrore e ribrezzo che lui provava verso di loro, e che la comprensione razionale dell’accaduto gli ha permesso di superare. Ma il tempo per la comprensione reciproca è ormai scaduto; resta vivo soltanto il mito di un uomo che è quasi riuscito a sterminare un’intera razza. Resta, appunto, la leggenda.
Un tema forte e dirompente come quello di Io sono leggenda non poteva non attirare le attenzioni del mondo del cinema. Così, accanto a diversi debiti verso le idee e le atmosfere del libro ammessi da parecchi autori, tra i quali Gorge A. Romero per il suo La notte dei morti viventi, si sono già susseguite sul grande schermo due adattamenti, peraltro nessuno dei quali curati da Matheson. Nel 1964 il catanese Ubaldo Ragona si affida alla maschera umanamente perfida di Vincent Price per portare le vicende di Robert Neville in L’ultimo uomo sulla Terra, versione discretamente fedele al romanzo. La grande Hollywood si sveglia invece in 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (orribile traduzione dell’originale The Omega Man), diretto dal veterano Boris Segal, concede spazio alla rocciosa sofferenza di un Charlton Heston a suo agio in un film ricco di connotazioni politiche completamente assenti nel romanzo. Entrambi i film però tradiscono il romanzo spostando la vicenda da un piccolo villaggio a una grande città (del Centro America nel primo caso, Los Angeles nel secondo), facendo perdere così proprio l’elemento centrale che rendeva inquietante la vicenda del libro, ovvero la quotidianità dell’orrore che permea tutti i familiari punti di riferimento.
Arriviamo pertanto al 11 gennaio 2007, data in cui Io sono leggenda arriva nei cinema italiani. Questa terza versione è stata firmata da Mark Protosevich e Akiva Goldsman, sceneggiatori esperti delle atmosfere hollywoodiane, mentre alla regia si è dedicato Francis Lawrence, già director di Constantine. Le “stimmate” di Neville stavolta sono state affidate alla fisicità interpretativa di Will Smith, attore certamente più a suo agio con le atmosfere della commedia e dell’azione ma che ha saputo fornire ottime prove di attore anche in film come Sei gradi di separazione, Alì, e La ricerca della felicità. Anche in questa trasposizione gli sceneggiatori hanno ceduto al fascino delle metropoli abbandonate, trasferendo l’intera vicenda in una New York sicuramente spettrale e insicura ma sempre lontana dalle atmosfere evocate da Matheson. Lo stesso protagonista, come negli altri due film, diventa un medico scienziato, il che fornisce una base più verosimile per la sua attività di ricerca di una cura per l’epidemia, ma di nuovo fa perdere al personaggio di Neville l’acuto disorientamento di una persona normale alle prese con una tragedia personale prima che mondiale, e che in fondo era l’elemento che permetteva al lettore una identificazione quasi totale. Altro punto di distacco con le atmosfere del romanzo sta nel silenzioso compagno di Neville, un cane che lo accompagna nelle sue peregrinazioni dentro una Manhattan deserta, e che ricorda il cucciolo che nel romanzo l’uomo cerca invano di salvare. Dove nel libro la morte del cane rappresenta la fine certa della normalità, nel nuovo film è invece un’ancora di salvataggio per Neville, il suo ultimo collegamento con i ricordi di una vita passata che l’uomo spera di far rivivere.
Le prime recensioni, nel complesso positive, che arrivano da oltreoceano, dove il film è uscito lo scorso 14 dicembre, parlano di una grande quantità di azione mescolata a qualche riflessione non particolarmente approfondita. Questo ha consentito alla pellicola di accumulare record su record di incassi, per i quali grande merito va attribuito a Smith, ormai un Re Mida della celluloide in grado di trasformare in oro qualunque progetto a cui partecipa, mantenendo un livello di recitazione sempre più che dignitoso. In attesa del prossimo 11 gennaio, non resta pertanto che riprendere in mano, per chi lo ha già letto, il libro di Matheson, per rinfrescarsi la memoria e la mente con una visione del futuro fosca e oscura ma maledettamente avvolgente. Per chi non lo ha mai letto, il consiglio è di divorarlo prima di recarsi al cinema; per lasciarsi avvincere da una vicenda che prende la gola dalla prima all’ultima riga, sapendo che ciò che vedrà sul grande schermo sarà con tutta probabilità un’altra cosa. Magari molto interessante, ma non certo leggendaria.
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