Carlo Pagetti, Università degli Studi di Milano, esperto di cultura vittoriana, è stato un pioniere, in campo italiano e internazionale, della critica in ambito fantastico e fantascientifico, a partire da Il senso del futuro (Ed. di Storia e Letteratura, 1970), dirigendo negli anni 80 la rivista La città e le stelle (Ed. Nord). Ha curato una grande quantità di edizioni italiane di testi ottocenteschi e contemporanei, fra cui le antologie di classici del fantastico Il laboratorio dei sogni (Editori Riuniti, 1988); Il palazzo di cristallo (Mondadori 1991); La lotta col drago (Mondadori 1991). Fra le molte raccolte critiche da lui curate, L’impero di carta: La letteratura inglese del secondo Ottocento (NIS, 1994). Inoltre è autore di numerosi studi, fra cui I sogni della scienza (Ed. Riuniti, 1993). Come critico e traduttore, si è occupato di autori da Shakespeare a Dickens e Kipling, di immaginazione urbana e letteratura anglocanadese. Per la Fanucci ha curato le opere di Philip K. Dick. In recenti interventi si è occupato di Tolkien, Lovecraft e Shirley Jackson.
Il mio primo incontro con UKLG si situa subito dopo la metà degli anni ’60 del secolo scorso (un’epoca preistorica a livello informatico, e non solo) quando, grazie all’apertura mentale di Agostino Lombardo, il mio mai abbastanza rimpianto professore di letteratura inglese e anglo-americana presso la Statale di Milano, scrivevo la mia tesi di laurea sulla fantascienza nella letteratura americana, discussa nel 1967 e poi, riveduta e corretta, pubblicata come Il senso del futuro nel 1970.
Certo, Le Guin aveva fatto uscire nel 1969 il suo capolavoro The Left Hand of Darkness, ma ormai il mio studio era già impostato e anche Il senso del futuro avrebbe continuato a privilegiare romanzieri americani appartenenti in modo più esplicito alla tradizione distopica (il Bradbury di Fahrenheit 451), la vena apertamente polemica e distopica della social science fiction, presente nella rivista Galaxy, e le scorribande post-moderne di un Kurt Vonnegut, Jr., agli esordi, allora il più autorevole rappresentante di quei “nuovi mutanti”, evocati da Leslie Fiedler sulla Partisan Review nel 1965, in grado di sovvertire le regole della letteratura marciando dalla periferia al centro della cultura americana. In Il senso del futuro perfino il grandissimo Philip K. Dick condivideva un capitolo con l’ottimo – ma certamente meno geniale – Robert Sheckley, sebbene nell’estate del 1966 a Exeter, Devon, U.K., fossi riuscito a mettere le mani su una preziosa edizione paperback di seconda mano di The Man in the High Castle, un testo che nell’ottica troppo semplicistica delle mie ricerche di allora, pur affascinandomi, mi aveva creato qualche problema di “genere” (genre). È pur vero che, in Il senso del futuro, avevo inserito una delle più straordinarie citazioni del romanzo: il momento in cui Tagomi viene trasportato nella San Francisco, rumorosa e caotica, che appartiene alla “nostra” realtà storica. Per quanto riguarda UKLG posso segnalare solo un spunto critico, che registrava la matrice fortemente tolkieniana delle sue prime opere. A Dick e a Le Guin avrei reso pieno merito nel mio successivo volume I sogni della scienza, uscito nel 1993, “solo” un quarto di secolo fa…
Già tra gli anni ’70 e gli anni ‘80, tuttavia, avevo potuto accostarmi con migliore cognizione di causa alla narrativa di Le Guin, con la sua carica immaginativa e la rivisitazione delle convenzioni di un genere in cui ormai fantascienza e “ambigua utopia” si fondono liberamente, grazie alla mia collaborazione con Gianfranco Viviani e l’Editrice Nord di Milano. È stato Gianfranco Viviani – che della fantascienza apprezzava soprattutto l’aspetto avventuroso e la componente di evasione, ma che sapeva circondarsi di eccellenti collaboratori, come Riccardo Valla, Sandro Pergameno, Piergiorgio Nicolazzini – a darmi la possibilità di approfondire la fantascienza di Dick e quella di Le Guin, affidandomi l’Introduzione, per quanto riguarda Le Guin, di due raccolte di racconti e di tre romanzi, tra cui La mano sinistra delle tenebre (The Left Hand of Darkness, tradotto da Ugo Malaguti) e I reietti dell’altro pianeta (The Dispossessed, tradotto da Riccardo Valla). Del terzo romanzo, in realtà un’opera fantasy, La soglia (The Beginning Place, tradotto da Roberta Rambelli) dirò qualcosa di più in seguito.
Nell’Introduzione a La mano sinistra delle tenebre non mancavo di accostare Dick e Le Guin, attribuendo a entrambi l’importanza di una svolta decisiva a livello qualitativo della fantascienza con la pubblicazione nel 1969 rispettivamente di Ubik e di The Left Hand of Darkness, “due opere capitali, la cui importanza ‘storica’ è stata più volte sottolineata.” Mi riferivo soprattutto alla valorizzazione dei due autori americani da parte dalla critica accademica innovativa e ricca di spunti interpretativa promossa sulle pagine di Science Fiction Studies, che nel corso del 1975 aveva pubblicato due numeri speciali, dedicati prima a Dick, poi a Le Guin, curati da Darko Suvin.
Nel mio piccolo anch’io ho contribuito alla fortuna accademica dei due autori, nel caso di Le Guin mettendo in programma, oltre a The Left Hand of Darkness, The Word for World is Forest (1974), un testo che mi pare sia stato giustamente recuperato in tempi a noi vicini per la sua robusta impostazione ecologista, e The Telling (2000), un romanzo che ripropone il viaggio in un mondo alieno (in questo caso, risalendo un grande fiume) alla ricerca delle radici di una cultura misteriosa, eppure capace di “parlare” – come succede alla migliore fantascienza – ai lettori della nostra contemporaneità. Nel corso degli anni, più ancora di Dick, morto prematuramente nel 1982, Le Guin ha coperto un ruolo intellettuale importante, non solo come romanziera che si muove con grande disinvoltura tra fantascienza, fantastico, children’s literature, sperimentando anche forme narrative che esplorano dimensioni storiche alternative (Malafrena), ma anche come critica letteraria e teorica del “linguaggio della notte” (una formula da lei utilizzata nei suoi saggi). Assieme a Doris Lessing e a Margaret Atwood, con la quale ha dibattuto anche in questi ultimi anni, Le Guin costituisce un formidabile terzetto di voci femminili che esplorano i confini dei generi narrativi anti-realistici e delle problematiche del gender.
Non ho mai avuto modo di conoscere di persona UKLG. L’unica “zona di contatto” che posso citare riguarda una lettera che Le Guin scrisse, battendola a macchina un po’ in italiano, un po’ in inglese, il 18.XII.81 (così nell’intestazione) all’editore Viviani, e che Viviani mi girò. Le Guin ringraziava Viviani dopo aver ricevuto alcune copie di La soglia, esprimeva un apprezzamento convinto per la copertina del “Signor Miani”, “bella, originale, e convenevole”, e poi, passando all’inglese, chiedeva a Viviani di ringraziare “Signor Pagetti” “for his very kind and generous Introduction”, rivolgendomi, suo tramite, una domanda: “Are you quite certain that the monster is feminine? Because I am not! I am afraid that I did not make that unclarity clear…”. Nella mia premessa “Ritorno al di qua dello specchio”, in effetti, avevo “femminilizzato” il mostro di The Beginning Place, dandogli (dandole) la stessa valenza sessuale, soffocante e distruttiva, della Shelob del Lord of the Rings tolkieniano, dal momento che esso/essa “incarna[va] il terrore della sessualità e, nello stesso tempo, l’angoscioso richiamo del grembo materno”. Nell’81, forse per eccesso di timore reverenziale, lasciai cadere la questione posta con tanto garbo da UKLG. Mi piacerebbe oggi, che Ursula non c’è più e io sono vicino a compiere 73 anni, avviare con lei uno scambio di opinioni in proposito. Potrei fare come il protagonista di Lo spirito della fantascienza di Roberto Bolaño, completato nel 1984, che scrive a Le Guin due lettere mai spedite, parlando in una della “nostra identità athshiana” (il riferimento è alle creature verdi, sterminate dai terrestri, in The Word for World is Forest), nell’altra della sua passione per la fantascienza (“Ah, se potessi mettermi in comunicazione coi morti scriverei a Philip K. Dick”).
Ma, in fin dei conti, non a caso le lettere del personaggio di Bolano possiamo ancora leggerle, anche se Dick, Bolaño, Le Guin, non sono più tra di noi. La grande letteratura ci consente di dialogare sempre con gli autori e i personaggi che vivono tra le sue pagine: “Cara Signora Le Guin, cara Ursula, se posso permettermi…”
2018
di Salvatore Proietti
di Brian Attebery
Precedenti all'organismo di cui sono parte, e allo stesso tempo mantenendo la loro autonomia di azione, i mitocondri offrono un utile modello per l'intertestualità della SF/F, e specialmente di quella delle donne. Il dialogo fra testi, e tra chi li scrive e legge, può essere riconosciuto e valorizzato al meglio soltanto se si consente alle comunità sorte dalla pratica della scrittura e della lettura di compiere il suo ruolo. La cancellazione della SF delle donne è funzione della cancellazione di questi sforzi collettivi, azioni che spesso vanno oltre nozioni autoritarie del controllo autoriale; in effetti, alla bloomiana "angoscia dell'influenza", tutta al maschile, si sostituisce un'"euforia dell'influenza" che, frutto della scrittura delle donne, consente una permanenza anche agli autori maschi omaggiati e riscritti.
di Salvatore Proietti
di Raffaella Baccolini
di Eleonora Federici
di David Ketterer
di Joseph McElroy
di Tom Moylan
di Carlo Pagetti
di Salvatore Proietti
di Roberta Mori
L'articolo analizza la ricezione critica italiana della fantascienza di Primo Levi, dalla pubblicazione di Storie naturali (1966) alla seconda edizione di Vizio di forma (1987).
di Alessandro Fambrini
L'articolo discute l'antologia di racconti fantascientifici Saiäns-Fiktschen, pubblicata nel 1981 da Franz Fühmann, figura rilevante nella letteratura del dissenso nella Germania Est. Tra scenari distopici e ricerche scientifiche dagli esiti frustranti, le storie mettono in scena un generale pessimismo rispetto alla capacità umana di evolvere verso forme individuali e sociali migliori attraverso le ideologie del suo tempo, in opposizione al forzato ottimismo ufficiale. Allo stesso tempo omaggio e parodia, la sua fantascienza fonde speculazione e scrittura saldando insieme conoscenze scientifiche e logiche economico-politiche. Nella programmatica metafora della stella marina, testi di Pohl & Kornbluth e Naomi Mitchison, scritti in altri contesti storici, offrono risonanze affini, e di maggiore speranza.
di Riccardo Valla e Antonino Fazio
In forma di dialogo critico, l'articolo è un'esplorazione del rapporto instaurato da fantascienza e fantasy con i concetti di scienza e magia. Storicamente mutevoli, e legati anche alla specifica modalità retorica della loro presentazione, questi concetti restano sfumati; nondimeno, la scienza (anche immaginaria) si distingue dalla metafisica per il rigore del metodo di indagine del mondo possibile. In questo senso, l'attribuzione di un testo a un genere o all'altro può condurre a risultati contro-intuitivi: esempi sono opere di Peter F. Hamilton e Ted Chiang.
di Salvatore Proietti
L'articolo analizza Unfinished Tales come paradigma di lettura per la testualità di Tolkien, legata non tanto alla stabilità autoritaria del mito, quanto alla pluralità dialogica della performance folklorica – un riferimento frequente negli scritti critici dell'autore . L'ipotesi è che, tra mito e romanzesco, Tolkien cerchi un punto di incontro in una scrittura che sfumi nella narrazione orale. Esempi sono tratti anche dal Silmarillion e da opere dalla struttura apparentemente più tradizionale, come The Hobbit e The Lord of the Rings. Alcune recenti opere fantasy (Le Guin, Samatar, Monette) consentono di ritenere che l'instabilità del racconto e della pratica orale continui a essere un'ispirazione per il genere.
di Salvatore Proietti
di Salvatore Proietti
di Salvatore Proietti
di Giovanni De Matteo
di Daniela Guardamagna
di Antonino Fazio
di Antonino Fazio