La nostra bella ricompensa: Le storie di Ursula K. Le Guin

di Salvatore Proietti

Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018). 

La mia scoperta di Ursula K. Le Guin fu nel primo numero di Robot comprato direttamente in edicola, a inizio 1978, lungimirante nell’attenzione per la SF delle donne, in cui Intracom era una storia beffarda, un’astronave alla Star Trek che incontrava uno inner space decisamente al femminile. L’ironia l’avrei trovata spesso, anche nelle tante riscritture di trame e tropi preesistenti.

D’istinto, alla notizia della scomparsa riapro The Dispossessed che, come I reietti dell’altro pianeta, avevo letto pochi mesi dopo, sullo sfondo di un anno tragicamente lancinante per l’Italia. Ora sono un esperto professionale di letteratura americana, e riconosco gli echi di Emerson, di Thoreau, forse di Emily Dickinson, ma riconosco anche cosa mi avesse, già in quel momento, fatto pensare a un capolavoro necessario: quei pianeti gemelli, uno simile alla nostra terra, uno anarchico che si stava cristallizzando in dottrina, con quell’impalpabile muro da superare, parlavano direttamente a ragazzi e adulti di quegli anni italiani, in quella primavera-estate 1978 che sembrava negare ogni ideale. E poi una bellissima storia d’amore, con una cura rara per i personaggi; la vicenda del ragazzo che diviene scienziato e rifiuta di subordinare il suo lavoro ai comandi dall’alto, rivendicando uno spazio per l’iniziativa e la creatività individuale; la ricerca e l’istruzione come forme di riscatto.

Quel mondo utopico (Anarres, e il dissenso di Urras) era aperto al miglioramento, e sarebbe sfuggito al dogma. La rivoluzione è dentro di noi, dice il protagonista Shevek, come l’utopia nelle Città invisibili di Calvino, diamole spazio senza soffocarla nella Realpolitik come fa, in un racconto del 1973, la presunta società ideale della Omelas che si sostiene sulla sofferenza di un innocente. Al centro di tutto, la capacità di comunicare, incarnata in I reietti dall’ansible, dispositivo un po’ tecnologico, un po’ mistico, frutto del sapere, non della conquista. Anche il finale è nel nome del superamento di muri e separatismi: l’incontro con l’ambasciatrice terrestre che gli ricorda il “nostro” disastro ecologico (e fa capire a chi legge che in The Dispossessed quasi tutti sono alieni), e la decisione del funzionario hainiano di visitare Anarres. Nel nome dell’apertura, la speranza diventa universale.

Per decenni, Le Guin è stata il centro ideale di una comunità professionale ed editoriale, di scrittori e scrittrici appassionati di SF/F che, da lei e con lei, hanno appreso l’importanza di immaginare l’alterità. Pensiamo al celebre discorso di fine 2014, in cui levava la sua voce a nome di tutti i suoi colleghi, “scrittori dell’immaginazione, […] poeti, visionari, realisti di una realtà più grande”, capaci di “vedere alternative […] e perfino immaginare nuove basi per la speranza”. Il breve discorso parlava di opposizione tra arte e profitto, difendendo l’autonomia di tutta la filiera professionale, autori, editor, agenti, editori, contro lo strapotere degli uffici marketing e dei nuovi monopoli transmediali. Davanti ai “tempi duri” in arrivo, “ci serviranno scrittori in grado di ricordare la libertà”.

Mi aveva fatto piacere scoprire, in un suo commento nel blog, che la ripetuta espressione usata per riferirsi al riconoscimento ricevuto, beautiful reward, bella ricompensa, era un omaggio a una canzone di Bruce Springsteen (nell’album Lucky Town, del 1992), “My Beautiful Reward”, che cantava di una speranza incancellabile, davanti a qualunque sconfitta. Due voci di quell’America “alternativa”, che avevo imparato ad amare, parlavano la stessa lingua.

In questo ricordo c’è qualcosa di più personale, fatto di quindici anni di scambi di email. A un certo punto, le avevo spedito (alla casella postale indicata nel suo sito, mi aveva consigliato Darko Suvin) un articolo scritto a fine anni 90, in cui parlavo di La mano sinistra delle tenebre e Sempre la valle, insieme al libro scritto dalla madre Theodora Kroeber, Ishi in Two Worlds, trovandovi una sensibilità superiore anche a quella dei migliori antropologi “postmoderni”, storie di “osservazione partecipante” intensa e sincera. Con mia sorpresa, Le Guin mi rispose, dicendo di aver particolarmente apprezzato che non avessi considerato la comunità kesh di Sempre la valle come un idillio primitivista. Con tanta ironia, quei futuri nativo-americani avevano inglobato i computer nella loro cultura – per la memoria e la comunicazione con gli altri, non per la guerra come la loro controparte isolazionista.

Se andrà tutto bene, non aspettarti più di tre email l’anno, mi disse Suvin. E quelle email arrivavano, e continuarono, più spesso (come era giusto che fosse – e credo di non aver mai smesso di sentirmi intimidito) risposte a miei messaggi, a volte iniziate da lei. A volte gli argomenti erano seri (“solidarietà” era una parola chiave), a volte leggeri (anche i gatti, naturalmente), una presenza lontana ma vera, sempre incoraggiante e piena di entusiasmo.

Il suo piacere era nella conversazione, ed era stata una scelta giusta quella di non chiederle nulla. Quando scrivevo di lei, però, le spedivo gli articoli; aveva linkato sul suo sito un pezzo sulla distopia, e aveva commentato un riferimento a La mano sinistra delle tenebre nell’introduzione a una mia traduzione di Walden di Thoreau: mi era parso giusto che due capolavori della letteratura ecologica si parlassero direttamente. A fine 2008, fu quasi una sorpresa che accettasse di mandarmi un breve pensiero su Theodore Sturgeon, per un pezzo che uscì su Robot 55, sottolineando la diversità e lo spessore umano di un autore in anticipo sui tempi. Aveva ricordato con affetto il suo rapporto epistolare con Riccardo Valla, per tanto tempo suo principale traduttore italiano, e salutato con piacere (inoltrando il mio messaggio a una community di scrittrici SF/F, che aveva commentato vivacemente la notizia) che gli fosse stata dedicata una piazza a Torino. Gli scambi erano stati assidui durante la traduzione di Paradisi perduti (Delos Books 2013), che a sua volta era diventata uno spazio di piacere e divertimento, quasi giocoso nella trasformazione del suo inglese in una lingua che un po’ conosceva – e talvolta i suoi messaggi erano in italiano. C’erano i legami familiari che, ogni tanto, l’avevano portata in Italia; ogni tanto tornavano i nomi di autrici delle sue parti d’America, la costa ovest, soprattutto Vonda N. McIntyre e Molly Gloss. Ricordo anche l’eccitazione davanti alla prospettiva di una visita dell’autrice spagnola Rosa Montero.

A un certo punto, aveva dato il suo assenso alla mia proposta di chiamare Anarres una rivista di critica sulla fantascienza. L’ultimo messaggio significativo, a metà dell’anno scorso, era stato un contatto per la traduzione di un articolo di Brian Attebery, teorico della fantasy che aveva collaborato con lei alla cura del Norton Book of Science Fiction (1993), e che a un convegno in suo onore aveva parlato della SF delle donne come comunità intertestuale, un “book club” che promuove e perpetua la memoria della scrittura femminile, troppo spesso ostacolata e cancellata.

Negli anni intorno a The Left Hand of Darkness con la sua società androgina, anche la SF italiana stava parlando di sessualità, in due romanzi che incorniciano gli anni Settanta: Dove stiamo volando di Vittorio Curtoni (1972) e Extraterrestre alla pari di Bianca Pitzorno (1979). Era la SF, in tutto il mondo, a esprimere i desideri di cambiamento di una generazione, un radicalismo che privilegiasse l’immaginazione sulla violenza. Quel “book club” al femminile potrebbe/dovrebbe essere anche italiano, superando quei pregiudizi, anche politici, che hanno marginalizzato la SF/F e la scrittura femminile. Sarà così strano che molti dei mondi alieni più belli dell’ultimo cinquantennio di SF sono stati scritti da donne?

Qualche anno fa, Fantasy & Science Fiction aveva pubblicato una scelta dello scambio di lettere che si erano scambiate Le Guin e James Tiptree/Alice Sheldon (prima e dopo la rivelazione dell’identità femminile della seconda): ecco, a renderla diversa e centrale è stata la propensione al dialogo. In quel convegno, una foto la ritrae con in grembo un tribble (David Gerrold, lo sceneggiatore di quel leggendario episodio di Star Trek, era tra i colleghi presenti), e mi sembra un’immagine emblematica: la più grande creatrice di alterità che cullava tra le braccia l’alieno di un altro.

È la capacità di dialogo con altre voci, anche molto diverse dalla sua, accomunate dall’amore per lo storytelling, che tutte le testimonianze le riconoscono. Tutto il contrario di una woman in the high castle, dalla sua casa di Portland, Oregon, con l’esempio e il contatto ha tenuto aperta la porta della comunità professionale della SF/F. Lo storytelling era un modello anche politico: per il mondo, la speranza sta nel raccontare una pluralità di storie, e non smettere mai di combattere per farlo. È questo il messaggio (mai didattico) che attraversa tutto il suo lavoro, da The Left Hand of Darkness e The Word for World Is Forest, passando per Always Coming Home, fino a The Telling, agli ultimi libri di Earthsea e a Lavinia.

Fra ecologia, anarchia, pacifismo, nonviolenza, taoismo, femminismo e amore per il fantastico, si è dipanata una vita straordinaria, che ne ha reso possibili tante altre. Le storie di Ursula mi accompagneranno ancora a lungo.

Anche nel nome del suo rapporto con l’Italia: lo scrittore più apprezzato era Italo Calvino, e ho sempre letto la galleria di mondi alieni di Su altri piani come la sua versione delle Città invisibili. Ricordo anche un altro tributo a un autore italiano, di cui non so se conoscesse la produzione SF; in una raccolta di saggi del 2004, The Wave in the Mind, un articolo si concludeva con un omaggio a Primo Levi, citando I sommersi e i salvati: “È compito dell’uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine”. Le Guin definiva Levi “un uomo che non ha mai detto altro che la verità, e l’ha detta in modo sommesso”. Anche le storie di Ursula erano dette quietly, cercando di dare spazio (dice un’intervista su Youtube) a unheard voices, voci inascoltate: ora spetta a noi seguire il suo esempio.