Francesco Cassata. Fantascienza?

di Salvatore Proietti

Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018). 

Francesco Cassata. Fantascienza? Torino: Einaudi, 2016. 275 pp. € 22,00.

“Così è la vita”, dice la voce narrante di Carbonio, racconto conclusivo del Sistema periodico (1975), che forse Primo Levi aveva concepito negli anni Quaranta; “So it goes”, è il tormentone di Mattatoio 5 di Kurt Vonnegut: due scrittori di origine ebraica, quasi le stesse parole davanti all’esperienza di un trauma indicibile (il campo di concentramento, il bombardamento di Dresda). In Fantascienza?, Francesco Cassata ipotizza un’allusione di Levi a What Is Life? raccolta di saggi del fisico Erwin Schrödinger, che teorizzava la vita nell’universo come opposizione all’entropia (177), mentre evoca Vonnegut per l’ovvia somiglianza nei finali di Ottima è l’acqua e Ghiaccio nove (234). Senza un accesso alla biblioteca di Levi, non si può avere la certezza di una conoscenza diretta, ma è lecito notare in entrambi una tensione di speranza: Levi parla di “vita”, in Vonnegut “si va”, si procede.

La scienza (teorica e applicata) e il metodo scientifico sono per Levi fonti di fiducia in un’umanità intesa sempre come homo faber, e la fantascienza è il luogo in cui questa visione si concentra nella maniera più compiuta: questa è la tesi del libro di Cassata, breve quanto bello e necessario, nato dalle “Lezioni” promosse annualmente dal Centro Primo Levi di Torino. Già nel 1946, subito dopo Se questo è un uomo, Levi scrive I mnemagoghi (1948): “i racconti fantastici di Levi non sono un corollario, un’evasione o un’espressione secondaria e tardiva della sua vocazione letteraria, ma affiancano e accompagnano la narrativa di testimonianza”, scrive Cassata; soltanto “un’illusione ottica”, dice Levi in un’intervista del 1977, può separare le due attività (23). Dopo le due antologie qui analizzate, aggiungerei, la SF è uno sgocciolio narrativo costante, fino agli ultimissimi mesi del 1986.

Nonostante dai Mnemagoghi a Versamina, Il fabbro di se stesso e Scacco al tempo, il tema della memoria rimanga centrale, questi racconti causano scandalo, considerati inattesi, inadeguati alle aspettative. Sono le aspettative imposte sulla sua opera l’argomento centrale del libro, dai preconcetti su scienza e tecnologia a quelli, forse inconfessabili, legati all’immane portata dell’Olocausto. Marco Belpoliti ha scritto sulle diffidenze incontrate da Se questo è un uomo, lontano dai modelli accettati neorealisti o sperimentalisti. Non sono certo di quanto queste diffidenze siano del tutto superate in Italia, anche in versioni aggiornate (all’uscita di Tutti i racconti curati da Belpoliti qualche silenzio mi parve assordante). All’inizio del libro, una nota ricorda che a Levi la lingua italiana deve l’uso (raro altrove) del termine “Lager” (vi-viii), ma leggendo questo studio pensavo anche a quanta sperimentazione linguistica sia presente nella sua SF, dai linguaggi scientifici al piacere (insito nei protocolli del genere, come ci hanno spiegato Marc Angenot e Istvan Csicsery-Ronay) della creazione di nomi allusivi/“parlanti”, risemantizzazioni di parole esistenti (la Rete di A fin di bene guarda molto lontano, nella stessa direzione “virtuale” di Trattamento di quiescenza) e soprattutto di neologismi (dai Mnemagoghi al Paracrono, passando per il Mimete, il Versificatore, il Calometro, il Torec, lo Psicofante…): il gioco linguistico era consustanziale alla poetica di Levi, ma non era quello prescritto dagli arbitri del gusto dominanti.

E c’è qualcosa di umanamente crudele nell’accusa di scarso realismo, troppo spesso un modo per sminuire l’unicità della Shoàh. Da americanista, penso alle riflessioni sulle memorie del Lager e della schiavitù in Canoni americani di Alessandro Portelli (Donzelli 2004, 114-35). Formule quali “se questo è un uomo” mirano a parlare a nome di un’umanità comune, che il Lager aveva cercato di cancellare nel corpo degli internati (e a cui i nazisti avevano rinunciato nel proprio animo), e così fanno le autobiografie degli schiavi; ma va sempre ricordato che

la generalizzazione di Primo Levi è intransitiva: lui ha diritto di dire “voi non siete come me” ma noi non abbiamo il diritto di dire a lui […] “tu sei come noi”. Se ha senso fare di Auschwitz e della schiavitù metafore della condizione umana, allora gli universali dovremo cercarli nella parzialità di chi ne ha fatto l’esperienza[, …] nelle parole di coloro la cui umanità è stata […] messa in discussione, demolita, e ricostruita. (Portelli 117)

Leggendo il capitolo finale di Cassata, sulla ricezione delle antologie, si ha l’impressione che Levi, dopo aver resistito contro chi voleva cancellarne la parola, stesse incontrando altre strategie di minimizzazione. Al di là delle livide stroncature di Vie nuove, il settimanale del Pci (che i lettori SF avrebbero letto su Gamma), e Quaderni piacentini, facili equazioni “francofortesi” tra Lager e un unicum che sussume scienza, modernità e capitalismo si alternano con rimproveri “di non essere conseguentemente apocalittico” (227-31). In positivo (Cases postula “una ‘zona’ italiana di fantascienza”; 65) o in negativo, la scelta di troppi critici “militanti” è di calare su Levi i propri assunti, di parlare per lui.

Cassata non è un esperto di SF ma, da storico, ci offre una lezione di attenzione rispettosa per le fonti: per comprendere cosa muovesse l’interesse di Primo Levi per scienza e SF, questo libro sceglie di ascoltare, in articoli e interviste, le sue parole.

Del rapporto tra scienza e cultura italiana Cassata si era già occupato. Le due scienze: Il “caso Lysenko” in Italia (Bollati Boringhieri, 2008) esplorava l’impatto di una teoria sconfessata nell’ambiente scientifico, ma legittimata (come “scienza proletaria”) nel nome del primato della politica su ogni campo del sapere. Eugenetica senza tabù (Einaudi, 2015) ricostruiva un pregiudizio antiscientifico che identifica tutta la ricerca genetica con una “genealogia immaginaria” da Darwin a Mengele. Sull’argomento è in corso un’opera di ripensamento, che comprende studi di Massimo Bucciantini (Italo Calvino e la scienza [Donzelli, 2007]) e Pierpaolo Antonello (Contro il materialismo. Le “due culture” in Italia: bilancio di un secolo [Torino: Aragno, 2012]), e il lungo lavoro di Giuseppe Lupo sull’esperienza della Olivetti.

Rileggendo un rapporto del 1947 su un possibile difetto nelle vernici prodotte dall’azienda per cui lavorava, e successivi lavori scientifici, Cassata riassume un progetto che attraversa tutto Levi: “in che misura il linguaggio e la fantasia umani possono contribuire a rendere immaginabile e comprensibile un universo incommensurabile, come quello descritto dalle scienze? Che valore può avere in questa prospettiva [come scrive in L’altrui mestiere] ‘la strada del paradosso, della folgorazione comparativa oltre il limite dell’assurdo?’” (13). Molto della sua estetica è influenzato dal metodo scientifico di ipotesi e verifica, ed è la relazione scientifica che nel 1982 Levi chiama il suo modello letterario, lontano dal “bello scrivere” (15-17).

Pur incoraggiato da Calvino (31), la cautela editoriale che accompagna la produzione di Storie naturali (fino allo pseudonimo e alla fascetta ripresa nel titolo di Cassata) lo porta “ad assumere una posizione difensiva”, anche legata a un’“insofferenza per le ‘etichette’” (37), e un’intervista del 1964 distingue fra opere “serie” e “racconti scherzo”, “piccole trasgressioni” che gli suscitano un “senso di colpevolezza” (51-3). In generale, quando parla di SF parla della sua vita di scienziato: “avventure spirituali di un chimico”, dice nel 1963, e nel 1966 dell’ossimorica “ambiguità della fantascienza”, analoga al suo “destino” di “centauro” (41). Dopo Vizio di forma i riferimenti alla SF sono ripetuti (i rari modelli menzionati sono sia classici highbrow sia di genere), e in un articolo del 1974 (con echi della Arendt post-Eichmann) scrive “noi scrittori di fantascienza” (207).

Nelle parole di Levi, il rapporto tra scienza, SF e nazismo (cap. 2), è tutt’altro che di identificazione. Legati, in un’impalcatura formale post-wellsiana, a un’“intuizione puntiforme”, i racconti danno voce all’“esperienza di una smagliatura, di un vizio di forma che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale”. Il “ponte” con la prigionia è che “il ‘lager’ è stato il più grosso dei vizi […] il più mostruoso dei mostri generati dal sonno della ragione” (45-47), un mundus inversus, glossa Cassata, “non irrazionale ma dotato di una sua mostruosa, capovolta, logicità e razionalità” (49). Il Lager continua ad allarmare perché la scienza ne era stata la prima vittima, e nel 1955 Levi aveva scritto di un’Auschwitz figlia di “quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?” (49). Su Eichmann, parla nel 1961 di “‘sogno demenziale’, irrazionale ma […] fondato su un pregiudizio razzista di matrice biologica e su un’organizzazione di tipo industriale” (51). Allora, i “racconti scherzo” sono anche “trappolette morali”, che tramite lo straniamento cognitivo (concetto che Cassata applica anche alle testimonianze), lo humor e la parodia, portano a mostrare i “vizi di forma” (51-3). Dal punto di vista personale, dice nel 1966, le storie sono “uno sforzo di ritorno alla realtà e di evasione dalla parte ufficiale e professionale che il destino mi ha imposta” (53-55); se non avranno successo “sarà la fine della parentesi letteraria” (55).

Questo “ritorno alla realtà” mi pare il punto chiave. La SF incarna non solo la sua identità letteraria ma anche un’uscita dalla violenza della “vita nuda”. Nell’abbraccio letterario con la scienza (come poi nella dignità del sapere operaio celebrata nella Chiave a stella) Levi riafferma e ricostruisce quell’umanità negata dal Lager.

Nel cap. 3 su Storie naturali (1966) Cassata si concentra su due gruppi. Da un lato, nei sei racconti sul signor Simpson, rappresentante di elettronica che diventa “un Prometeo nell’Italia del boom” (65), “la tecnologia […] non è semplicemente una fonte di alienazione o reificazione disumana […], bensì un complesso prodotto sociale e culturale” (71). Prodotti, consumatori e venditore “non sono mai trattati in una chiave interpretativa univoca e demonizzante, ma sono intrisi di ambiguità”. I gadget sono omaggi alla SF classica che palesano “un entusiasmo e una fiducia nel progresso tecnologico  ben presenti nell’Italia dei primi anni Sessanta” (73), e un’alta consapevolezza della ricerca contemporanea, in “complicate prove di collaudo nelle quali il confine tra successo e fallimento è sempre definito su base etica” (77). Prodotti nati con “una chiara funzione emancipatrice e progressista” (77) falliscono per “un atto di hybris, tanto etica quanto cognitiva, innescato dai consumatori stessi”, talvolta “un impiego criminale e discriminatorio”, talaltra “una visione riduzionistica della complessità del mondo naturale” (79). Simpson fallisce perché la sua ricerca si distacca “dall’esperienza e dalla vita” e “dall’etica della prova e dell’errore, da quel senso di rischio costante, di responsabilità e di scommessa col vuoto che dall’Ecclesiaste giunge fino alle stanze di laboratorio” (93-95).

Dall’altro, le storie tedesche tornano alla materia  dell’universo concentrazionario evocando lo “stravolgimento nazista di un spazio e di un’attività – il laboratorio e la pratica sperimentale – che, nella sua opera, rivestono un significato non solo scientifico, ma anche etico e politico [in quanto] sorgenti di un sapere preciso e razionale, quasi naturalmente antifascista” (97), di cui parla recensendo testi scientifici; legge sui medici nazisti, come sugli scenari huxleyiani aperti da sperimentatori contemporanei nel campo biomedico-farmacologico o negli studi sull’immortalità di tessuti in vitro (italiani, ma anche sovietici)inaugurati dal razzista e nazifascista Alexis Carrel.

All’uscita di Vizio di forma (1971, discusso nel cap. 4), Levi lo distingue dal precedente in quanto “volutamente anti-poetico”, “disumano” nel linguaggio (145). Inoltre, in luogo dell’euforia del Boom e della speranza in un dialogo tra le superpotenze, arrivano le preoccupazioni “dell’ambientalismo scientifico”, che rimangono a lungo: la necessità, scrive nel 1979, di “fare i conti planetari” (147). Per Cassata, questo è “prima di tutto un libro ecologico” (149), in un’agnizione della dimensione globale provocata dalle foto delle missioni Apollo, uno straniato mondo “visto di lontano” (come da titolo di un racconto), e da letture di Fuller, Carson, Ehrlich, e dell’amico Roberto Vacca (il cui Medioevo prossimo venturo manca però di pietas, gli scrive nel 1971; 157).

Nell’antologia Levi inizia a indagare ciò che nel celebre saggio del 1983 Il brutto potere chiamerà, parlando come scienziato, un’opposizione fra entropia e omeostasi. Se l’interpretazione standard è una constatazione dell’ineluttabile avanzata della prima nel mondo – scientificamente nulla più di un’ovvietà – l’analisi della crisi ecologica come rottura di un equilibrio omeostatico (da conoscitore di Wiener e Lester Brown) adombra invece la possibilità di un feedback antientropico (il feedback è un modello dinamico, non una caduta dall’eden). Su questo modello (che riecheggia sia Lucrezio sia studi pubblicati su Scientific American, che Levi leggeva regolarmente come ha mostrato Enrico Mattioda) si basano l’ecodisastro globale di Ottima è l’acqua e la metafora dei lemming in Verso occidente. Alla radice del degrado è la responsabilità umana, non una visione per cui la scienza (la conoscenza) è deterministicamente autodistruttiva. La sua è “un’irrisolta investigazione sulla precarietà degli equilibri ecosistemici nel mondo contemporaneo” (193).

La quarta di Vizio di forma è una dichiarazione programmatica: “Non c’è scelta, all’Arcadia non si ritorna, ancora dalla tecnica, e solo da essa, potrà venire la restaurazione dell’ordine planetario, l’emendamento del  ‘vizio di forma’. Davanti all’urgenza di questi problemi, gli interrogativi politici impallidiscono” (193). Nel 1971 parla di una “fiducia nell’avvenire dell’uomo […] che vorrei definire biologica, che intride ogni fibra vivente” (191), e puntualizza “ribaltando i termini della questione” del rapporto scienza-politica. Se la scienza si è asservita al potere, più che pensare a una politica salvifica – che perpetuerebbe un rapporto di subordinazione – si tratta di riacquistare uno spazio di autonomia, e questo vale ancor più per i “tecnici” che per gli scienziati: la loro “maggior colpa”, il “vizio di forma”, è “l’aver sottovalutato la loro stessa forza, e la misura delle trasformazioni da loro scatenate”. Con un loro “ritorno alla coscienza […] una restaurazione dell’equilibrio è possibile” (195). Le sue catastrofi, dice, sono cautionary tales, non affermazioni di sfiducia apocalittica (197). Con umorismo e drammaticità (i protagonisti sono comunque degli outcast), I sintetici e Procacciatori d’affari adombrano la possibilità di “un’utopia razionale tecnoscientifica” (203).

Contro ogni ritorno al passato, in molteplici occasioni insiste sulla responsabilità professionale. “Senza uno sviluppo tecnologico e scientifico, oggi moriamo”, afferma nel 1976 (213); per questo sarà necessario un “codice deontologico”, dice nel 1982, e “sarà un codice complicato” (215). Nella prospettiva di quella che in La ricerca delle radici chiama “la salvazione del capire”, Levi rimane uno scienziato rigoroso, per cui semplificazioni e riduzionismi sono inaccettabili.

Nella conclusione, Cassata presenta lo studio come un “inizio” (239), ed è senz’altro un libro che apre svariati orizzonti di indagine. Unica pecca in un’edizione con ambizioni internazionali, scritto in forma bilingue, inglese e italiano, è una traduzione inglese spesso legnosa, non sempre coerente nelle traduzioni dei titoli, e con qualche errore banale ed evitabile (in italiano Levi legge il saggio di Vacca “in bozze”; in inglese in rough draft, cioè in prima stesura [152-53]).