Considerazioni sul ruolo e sui possibili sviluppi futuri della SF all'interno di un mercato letterario dominato - in maniera crescente - dalla fantasy, o meglio dalle sue forme piu' commerciali.
di Darko Suvin
Darko Suvin (McGill, Emeritus) vive a Lucca. Tra i suoi ultimi volumi vi sono Defined by a Hollow: Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology (Lang, 2010), A Life in Letters (Paradoxa, 2011) e Splendour, Misery, and Possibilities: An X-Ray of Socialist Yugoslavia (rist. Chicago: Haymarket, 2018).
traduzione di Gemma Castelli, a cura di Salvatore Proietti
1. Il formidabile Brian Stableford, nel n. 79 (2000) di Foundation, ci ha fornito molti argomenti di riflessione sulle “alterne fortune” della fantascienza in quest’ultimo quarto di secolo. Vorrei riflettere in questa sede sui suoi dati e sulle sue conclusioni (cfr. soprattutto pp. 49-55) riguardo il futuro della SF, specialmente in concomitanza con l’invasione della heroic fantasy e dell’horror, generi che si rivolgono a quello che in passato era stato il suo pubblico più fedele. Poiché, per ragioni analoghe, ho trattato di tale invasione in un articolo apparso recentemente su Extrapolation, mi piacerebbe, basandomi su quel saggio, riutilizzare dati e argomentazioni per affiancarli a quelli di Stableford e in qualche modo modificare le sue cupe conclusioni.
Stableford ci racconta una storia stupefacente, con gravi conseguenze per la nostra comprensione della SF. In parole mie, il suo racconto sostiene che la fantasy (nel 20° secolo, un genere letterario o un insieme di generi letterari dal pubblico e dalle caratteristiche in rapporto stretto anche se confuso - molteplice, indefinito, d’amore-odio, complementare e contraddittorio -con la SF) è passata da una condizione di “parassita della sua cugina più popolare, la fantascienza” (Scholes 12-13) a un’indubbia vittoria commerciale e, vorrei aggiungere, ideologica sulla SF. Come ha sintetizzato David Hartwell: “Nella seconda metà del ventesimo secolo, con alcune eccezioni di successo, la fantasy è prodotta da scrittori di fantasy e fantascienza, curata da editor di fantascienza, illustrata da artisti di SF e fantasy, e letta da un pubblico di onnivori lettori, maniaci della fantasy e della SF, che ne hanno retto il mercato. La fantasy non è la SF, ma è parte del fenomeno che abbiamo di fronte” (20). L’enorme fioritura della fantasy cominciò alla fine degli anni Sessanta, quando si affermò anche il termine, coniato da Tolkien, di “Fantasy”. Ed è significativo che, dalla metà degli anni Settanta, questa fioritura sia affiancata da una crescente stagnazione quantitativa della SF (Hartwell 185-92), e certamente anche da una stagnazione qualitativa della sua gran parte.
Nel 1987 il ben informato John Clute calcolò che, eliminando ristampe e antologie, fra i 650 romanzi apparsi negli USA come “letteratura fantastica”, 298 sono SF e 352 “romanzi fantasy e horror” (18; simpaticamente, Clute aggiunge: “Per il sottoscritto la cattiva SF è riconoscibile come spazzatura, e la si può buttare subito via. La fantasy scadente è invece junk-food, un alimento sofisticato, una contraffazione irresistibile che invade lo stomaco e lo divora”). I dati che tutti noi usiamo provengono dal resoconto sull’editoria pubblicato ogni fine anno su Locus; questo resoconto, secondo me, non è del tutto affidabile, poiché considera come SF un numero d’opere che a me sembrano - parzialmente o del tutto - fantasy. Clute stima comunque che secondo i dati del 1992 i nuovi romanzi siano: 308 di SF, 275 di fantasy e 165 di horror (e-mail inviatami il 30/1/2000). Poiché ho spesso sostenuto che la fantasy comprende sia le storie heroic sia quelle horror, la proporzione è di 440 titoli di fantasy contro i 308 di SF. Dal verticale calo delle opere di SF negli anni Novanta (un terzo in meno dal 1991 al 1994!) e dal fatto che nel 1994 la proporzione fra i romanzi era di 204 di SF contro 234 fantasy più 178 (!) di horror, l’altrettanto ben informato Stableford trae questa conclusione: la SF — che secondo me ha maggiori possibilità di condurre ad approcci cognitivamente validi alla storia — “sarà ben presto la meno prodotta fra i tre generi” (49). Un’occhiata in una qualunque libreria mostra la continua e sicura ascesa di questa traiettoria decennale, che nel 1994 aveva raggiunto il rapporto di 2:1 in favore della fantasy. Ancora, i best-seller più importanti — da un punto di vista economico e della psicologia del consumo — sono venuti molto più spesso dal genere fantasy che dalla SF. Pessimisticamente, Stableford proseguiva speculando che forse i lettori abituali della SF hanno sempre avuto molto in comune con quelli della fantasy, visto che entrambi i generi hanno un denominatore comune nei “racconti d’avventure futuristiche, che poi erano essenzialmente delle esercitazioni di melodrammi in abiti d’epoca [costume drama]”, che da sempre hanno costituito la maggioranza della SF (51-52). Tutto ciò conduce a un diverso panorama anche per la SF, pertinente perfino per critici meno interessati e più dubbiosi sulle tendenze dominanti della fantasy (come me). Conclude Stableford: “Tirando le fila di tutte queste tendenze, si desume che i filoni della SF più seri e meditati corrono il rischio di venire completamente rimossi dall’arena commerciale” (55).
Credo che a questo punto non ci si possa sottrarre dal guardare più da vicino alla fantasy, che ovviamente soddisfa, a un certo livello (che potrebbe non essere il più salutare), gli interessi di un vasto pubblico. Quindi, prima di esporre la mia variante del funesto destino indicato da Stableford per la SF più degna, mi addentrerò un po’ nella discussione di questi interessi e delle loro cause.
2. Nel 1982 Patrick Parrinder scrisse un breve saggio, The Age of Fantasy, nel quale, fra l’altro, proponeva di collegare strategicamente la fantasy al desiderio. Già Tolkien aveva riconosciuto che le storie fantasy “chiaramente non si preoccupano tanto del possibile, quanto del desiderabile” (40). Quali desideri furono responsabili negli anni Sessanta per l’incontro di Tolkien, Conan e tutti gli altri con un terreno così fertile nella controcultura USA e poi europea? Una prima risposta potrebbe essere che a un certo punto si era estesa in lungo e in largo una rivolta contro un soffocante establishment militar-burocratico. La precipua ideologia istituzionalizzata di quell’establishment era (e, con opportune modifiche, è ancora) la razionalità tecno-scientifica asservita al profitto. Forse la diagnosi più indovinata e presciente fu quella di Karl Marx che, a metà del 19° secolo, individuò nello spazio della fabbrica la cellula di base degli alienanti meccanismi mega-oppressivi dell’industria capitalistica e della sua organizzazione della vita (con la commistione fra Stato e mercato), traendone una prospettiva generale:
L’attività del lavoratore [il valore d’uso, cioè la qualità materiale della produzione per mezzo del lavoro], ridotta a una pura astrazione dell’attività, è determinata e regolata per tutti i versi dal moto del macchinario, e non viceversa. La scienza che costringe le membra inanimate del macchinario-con la sua costruzione-ad agire in conformità allo scopo come un automa, non esiste nella coscienza dell’operaio, ma agisce su di lui, attraverso la macchina, come un potere estraneo, come potere della macchina stessa. L’appropriazione del lavoro vivo da parte del lavoro materializzato [è] insita nel concetto di capitale. (Grundrisse 707)
Il lavoratore diventa un “un semplice accessorio vivente” del macchinario, comprendente anche gli apparati burocratici pubblici e privati, al cui confronto ogni “forza valorizzante (della singola capacità lavorativa) scompare come qualcosa di infinitamente piccolo” e che “distrugge ogni relazione fra il prodotto e i bisogni diretti del produttore” (708). Il dominio sulla natura dei dispositivi tecno-scientifici è consustanziale al loro dominio sui produttori o creatori: “In origine il diritto di proprietà appare basato sul frutto del proprio lavoro. La proprietà ora appare invece come il diritto al lavoro altrui, e l’impossibilità a riappropriarsi dei prodotti del proprio lavoro" (179). Il macchinario (il capitale fisso) è lavoro passato oggettivato, ormai morto e simile a uno zombie, che cattura i vivi come in una possessione demoniaca.
Dunque, nonostante tutte le ipocrite esaltazioni della ragione, nella pratica che ha determinato la vita delle grandi maggioranze, la razionalità è decaduta dalle speranze dell’Illuminismo e si è scissa in: 1) qualcosa di ragionevole e perfettamente funzionale in termini di risultati personali e tangibili ai sensi per singoli e per numerose classi di persone (autodeterminazione, meno ore di lavoro, valori d’uso fisici e psicologici) ma irrazionale per gli scopi degli apparati di potere; 2) viceversa, un raziocinio d’apparato perfettamente inserito nel complesso militar-burocratico (cfr. Gorz 53 e passim). La razionalità proclamata dalla burocrazia e dalla tecno-scienza è in realtà una pseudo-razionalità impoverita: ne è un esempio il notevole miglioramento, in termini di quantità e funzionalità, dei mezzi capaci di produrre genocidi ed ecocidi. Tutto ciò non poteva che dare una cattiva reputazione alla ragione. L'immenso potenziale di miglioramento della qualità della vita da parte di scienza e tecnologia si è altrettanto alienato quanto le persone coinvolte. Nella guerra, che condensa e intensifica la politica quotidiana con mezzi differenti — e ci sono state più di 30 guerre nel solo 1999! — l’umanità disumanizzata guarda, attraverso i media, “il proprio annichilimento come un piacere estetico di prim’ordine” (Benjamin 1:508). Non ci deve sorprendere, anche se non è cosa salutare, che alcuni strati della popolazione cominciassero a riporre le proprie speranze in ogni tipo di scienze occulte e magiche, o cercassero di riesumare credenze religiose riadattate in modi retrivi, per sfuggire a una ragione alienata e per rifugiarsi in una dottrina non falsificabile. In quanto ai dogmi, la Mano Invisibile del Libero Mercato alla ricerca di un consenso universale non è migliore di ogni purificazione nel Sangue dell’Agnello, degli UFO o di qualunque Maharishi vi sia a disposizione.
In particolar modo, triste a dirsi, la cultura tecno-scientifica che si è sviluppata nel, col e per il capitalismo è di solito — anche se alcuni scienziati possono deviare dalla norma — una non-cultura in relazione con tutto ciò che non è tecno-scientifico: non solo le arti, ma anche tutte le attività nonviolente e sensuali. I cultori del Postmodernismo sostengono spesso che la nuova tecnologia “pulita” del computer abbia cambiato tutto ciò. Certamente non ha cambiato l’orribile sfruttamento delle giovani donne cinesi o malesi che producono i microchip. Ha poi cambiato la vita di noi fruitori? Potremmo discutere a lungo sugli effetti prodotti sugli intellettuali come me: per questo verdetto, credo che la giuria sia ancora in camera di consiglio, anche se è già evidente che il computer e la rete hanno approfondito il divario fra il Nord e il Sud del mondo, e che la stragrande maggioranza dei computer è uno strumento per gli tsunami della speculazione finanziaria globale. Nella produzione industriale, la computerizzazione ha creato impianti di difficile comprensione per gli operai, le cui precedenti capacità sono state in gran parte congelate nel software che comanda la macchina e che risulta loro inintelligibile. L’astrazione o “effimerizzazione” del lavoro è ancora più evidente negli uffici e nel settore dei “servizi”, dove il “prodotto stesso è astratto” (Chapman 307). In breve, le tecnologie senza autogestione “hanno inscatolato sempre più persone in una vita di torpore artificiale animato. Per queste persone […] la vita diventa una sorta di fantasmagoria di […] aspetti tecnologici” (ibid. 308). La cultura tecno-scientifica asservita al profitto trascura necessariamente l’impatto ambientale e il deterioramento dei sensi umani (per esempio l’udito sottoposto ad amplificatori a tutto volume). Essa, inoltre, si è dimostrata incompatibile col rispetto per il corpo fisico degli altri o con l’esaltazione della loro sensibilità e del loro piacere, che sono poi l’unica via per esaltare la propria sensibilità e il proprio piacere. È vero che per una privilegiata minoranza mercenaria nel campo della genetica molecolare o dell'informatica, per esempio, “il feticismo non è stato mai tanto divertente, mentre proliferano surrogati e sostituti zombie [undead]. […] Chiediamo a un qualsiasi avvocato che si occupa di biodiversità se, al giorno d’oggi, i geni siano fonte di ‘valore’, e ci sarà chiaro da dove nasce il feticismo della merce” (Haraway 134). Ma trattare i lavoratori o gli impiegati come mezzi per il raggiungimento di uno scopo falsamente definito “produttivo”, come mera forza-lavoro, è una repressione dell’intelligenza e della sensibilità sia del subalterno che del padrone. Oltre che nell’ambiente di lavoro, tutto ciò è riscontrabile anche nelle nostre abitazioni, nell’urbanesimo, nel rumore, nell’inquinamento, nell’illuminazione, nei materiali ed in tanti altri campi su cui il cittadino comune non ha alcun controllo-inclusa anche quasi tutta l’istruzione. La diagnosi di Marx è stata confermata in tutto e per tutto.
La cultura dominante della violenza istituzionalizzata, in feedback con la tecno-scienza, è dunque in fondo una cultura barbarica. In tali circostanze, che dall’epoca della rivoluzione industriale condizionano la maggior parte delle persone, la vita al di fuori del lavoro (“il tempo libero”) diventa l’antitesi della vita lavorativa, una forma di risarcimento. Come possiamo da questa posizione apprezzare Conan e simili eroi meno muscolosi? Come una complessa mescolanza di ideologia e utopia, suggerirei io: da una parte, una riproduzione concentrata e una riaffermazione delle crudeltà esistenti nella realtà alienata del lettore; dall’altra, uno sguardo compensatorio rivolto a quei valori d’uso di cui la società è carente. Le storie di heroic fantasy hanno almeno il merito, innanzitutto, di aver mostrato apertamente tutto ciò; secondo, di averlo sposato alla causa della sensualità e dell’iniziativa personale; terzo, di aver tenuto a debita distanza i precisi nessi causali della violenza che circonda il lettore o lo spettatore, in confronto ai quali gli avvenimenti semplificati dell’Età del Ferro in cui si svolgono i racconti appaiono meno alienanti. Questo, però, non annulla gli orizzonti generali semplicistici e talvolta francamente semi-fascisti di una tale fantasy.
3. Il comun denominatore della fantasy, ritengo, è il rifiuto assoluto di ogni tecnologia, urbanizzazione e finanza associate al capitalismo della rivoluzione industriale e all’apparato “paleotecnico” (Mumford), oltre al rifiuto dell’opacità e della pura perdita della sintesi sinottica che accompagna tutti gli sforzi per comprenderne le relazioni interpersonali. La definizione più adatta che sono riuscito a trovare per le opere che chiamo fantasy è “mondi alternativi astorici”. Ciò è consustanziale a un completo svuotamento sia delle costrizioni sia del mondo concreto del tardo capitalismo. Secondo me rimangono nella fantasy tre fattori derivanti dalle nostre pressioni quotidiane, che elenco in ordine crescente di metamorfosi, di eversione/ inversione in rapporto al mondo empirico del lettore.
Per primo c’è l’onnipresente status della vita e della libertà, sempre a rischio di estinzione, che scaturisce dalle nostre valanghe globali fatte di disoccupazione, fame, epidemie, guerre e via dicendo.
In secondo luogo, il posto di qualunque legge storica generale, di “progresso” borghese o di trasgressione socialista del capitalismo capace di conservare le conquiste dell’industrialismo, è preso dalla politica di potere: persino i collettivisti nostalgici alla Tolkien non possono mostrare una religione o un Salvatore di tipo monoteista. La heroic fantasy e l’horror si differenziano in base al fatto che la salvezza personale ottenuta attraverso l’azione di eroi-salvatori sia prevista oppure no. Se lo è, l’alienazione del lettore è bilanciata dal tentativo di cancellare ogni traccia della nostra storia allo scopo di perseguire la felicità in un contesto più grossolano ma più comprensibile, che si avvale dei paesaggi e delle città dai racconti “arabi” del Settecento o da simili leggende su un primitivismo “più duro”, spesso inframmezzate dall’intervento di un potere esercitato da divinità politeistiche e dalla stregoneria. Se l’azione salvifica non è possibile, la politica di potere si trasforma nell’intervento schiacciante di entità o divinità immensamente potenti nel nostro spazio-tempo quotidiano, che vincolano l’alienazione del lettore al piacere dell’orrore anestetizzato. In un successivo compromesso, tipico della nostra storia di speranze in continuo declino, settori della heroic fantasy spostano la salvezza in piccole oasi di sopravvivenza privatizzata, sullo sfondo di tutta un’epoca (Conan), o semplicemente negli interstizi di una città (Leiber).
In terzo luogo, per concludere queste ipotesi iniziali, le forme di disincanto più intensamente sofferte (Weber) o di perdita dell’aura (Benjamin) che pervadono tutti gli aspetti dell’egemonia capitalista, sono rimpiazzate da nuovi brividi o emozioni. Perfino l’horror lovecraftiano traccia una specie di causalità demente che si presenta come più sopportabile dell’isolamento, della frammentazione e dell’alienazione imposta dalla razionalità burocratizzata aggiogata al principio del profitto--e questo vale ancor più per i re-incantesimi di Dunsany, di Tolkien e dei loro seguaci.
Cerchiamo di evitare malintesi. Di fronte allo sconforto o perfino all’odio verso ogni storia veramente nuova promosso dalle barbarie puritana o affaristica, non c’è in linea di principio o in teoria alcun motivo per rifuggire da qualunque mondo alternativo. La mia scorciatoia in Le metamorfosi della fantascienza, il ripudio della fantasy in quanto genere, anche se riguardava solo la horror fantasy, si è rivelata troppo avventata. Credo però che esistano due precondizioni cruciali e consustanziali perché vi sia qualche utilità nella rappresentazione di un tale mondo, al di là della lettura da aeroporto per anestetizzare un ambiente insopportabile: 1) che in quel mondo le azioni e gli agenti siano radicalmente diversi, e non si limitino a tradurre in un illusorio eroismo (diciamo) la brutalità delle gang o del lavoro; 2) che la storia, a modo suo, faccia luce sui rapporti reciproci delle istituzioni e delle persone che circondano il lettore, permettendo così un orientamento e un intervento migliori. Secondo me ciò si applica sia alla fantasy sia alla SF. Ora, il concreto sottoinsieme costituito da gran parte della heroic fantasy o dell’horror è alieno a questi orizzonti. Si può trovare una giustificazione dicendo che le proporzioni potrebbero non essere peggiori nella SF. Non so se questo sia giusto, perché allora bisognerebbe leggere buona parte dei 600 nuovi titoli all’anno per poterlo dire: anche se lo fosse, sarebbe ben povera scusa.
4. Basandomi su questi argomenti, posso ora tornare a esaminare le tematiche propriamente sociologiche di Stableford. Senza dubbio, il fruitore e sostegno sociologico della fantasy è un vasto gruppo di lettori alienati, ai margini dell’egemonia sociale postfordista, formato da una parte degli intellettuali resi marginali, dei giovani, delle classi inferiori e delle donne; gran parte di essi rientrerebbero fra i sognatori narcotizzati descritti da Benjamin, che cercano di eludere le sofferenze inflitte dall'egemonia. Hugh Duncan, nel 1960, esemplificò questo gruppo per gli USA con le parole: “Il nero americano, il bianco povero e l’adolescente squattrinato sono quotidianamente sollecitati dai più persuasivi maghi di tutta la storia umana a desiderare tutto ciò che il denaro può comperare; ma, siccome sono neri, non specializzati o troppo giovani, non riescono a soddisfare queste esortazioni […] e devono reprimere i propri desideri” (cit. in Elkins 25-26; e cfr. Russ 61). Ma come possiamo aggiornare tutto ciò per l’ultimo quarto di secolo?
La mia ipotesi “sociologica” è la seguente. La crisi strutturale di lunga durata del capitalismo coincide con una crescita massiccia della letteratura fantastica, dentro e alla fine della fase dell'Alto Modernismo, parallelamente all’ampliamento del suo pubblico, a partire dagli intellettuali disamorati del genere “da Poe a Morris” fino a costituire un’attrazione di massa per i gruppi sociali emarginati. In particolare questo riguarda un’ampia percentuale di giovani lasciati, con il collasso dello Stato assistenziale e di tutti i movimenti organizzati di opposizione al capitalismo selvaggio, senza un punto di appoggio economico ed ideologico. L’enorme livello della mercificazione, che tutto invade, denota che anche quando si ottiene del lavoro, ormai raramente questo si identifica con il piacere. La soggettività è stata orbata delle sue oasi più personali (il lavoro, la famiglia) che di solito alleviavano il senso di sottomissione ed emarginazione: e ora è posta in svendita come l’ombra di Peter Schlemihl.
Il risultato è una crescita abnorme delle umiliazioni giornaliere nello sfruttamento indecente del lavoro, accentuato dal maschilismo e dal razzismo, fino alle decine di guerre estremamente sporche che, alla luce del sole, istituiscono una sorveglianza globale e riducono le persone a dati che uccidono o che sono uccisi, ma che, con estrema cura, occultano le proprie motivazioni. Una forma di reazione, piena di risentimento, è allora l'aspirazione crescente a un mondo dove i beni non siano solo merci, dove la gente non sia alienata dalla macchina onnipervasiva della guerra borghese di tutti contro tutti, o almeno dove chi rappresenta il lettore abbia la meglio. Qui gli eroi simpatici sono spesso ladri, pirati, o gente comune che fronteggia opportunità inspiegabili, oppure sono incatenati, contro il loro volere, a orrori opprimenti. A un mondo empirico “fuor di sesto,” come quello di cui lamentava Amleto, si oppongono mondi inversi “riassestati”, anche se di solito in maniera semplificata (con un’ingessatura?).
Basandomi su Gérard Klein e amplificandolo, direi che la SF si rivolge ai gruppi sociali che confidano di poter fare qualcosa oggi per un futuro storico collettivo, sia pur solo sotto forma di moniti terrificanti. Ciò implica di solito (Morris era una eccezione) un soddisfacente rapporto di buon vicinato, o di fatto una vera alleanza o addirittura un senso d’obbligo con le scienze. Al contrario, in una situazione in cui l’intero mondo vitale delle persone è stato nel frattempo sottoposto a una colonizzazione sempre più tentacolare e capillare, il richiamo della fantasy è rivolto a quelle classi sociali o gruppi irrisoluti che sono stati messi da parte e hanno perso una tale fiducia, così da trovarsi ad affrontare il presente e il futuro con orrore, o a decidersi di spassarsela prima del Diluvio, o entrambe le cose allo stesso tempo. Sembra esserci un ampio accordo fra editor e scrittori anglofoni, basato su sondaggi di mercato, secondo cui la fantasy è letta soprattutto da fasce giovanili, forse inferiori ai 35 anni, per il 70% maschi (Kelso 440 e 445), che hanno interiorizzato l’esperienza della mancanza di un posto di lavoro sicuro e permanente. Alcuni di loro sono laureati (come nella SF), ma nel periodo postfordista ciò non assicura più l’ingresso nella classe professionale-manageriale; altri sembrano già essere una generazione descolarizzata-e certamente la qualità della loro istruzione è marcatamente inferiore, soprattutto nelle materie scientifiche, a quella precedente gli anni Sessanta. Perciò l’epistemologia della SF può rivolgersi all’universalismo cognitivo delle leggi naturali e/o sociali, per quanto rinnovate, mentre un’epistemologia individualista e pluralista della fantasy ricorre all’occultismo, allo stravagante o alla magia, e si oppone al modello fantascientifico, pur appoggiandosi a esso. Contemporaneamente al sintomatico interesse dell’antropologia per ciò che Levi-Strauss chiamava la “società senza storia”, cioè un cortocircuito di mito e intelletto al di fuori della storia-i giovani del ceto medio urbano, per la maggior parte impiegati e laureati, rifiutarono tutte le relazioni di causa-effetto, quelle accreditate e non solo (Ben-Yehuda 75-77, 85).
Klein e Ben-Yehuda sottolineano come siano esattamente paralleli nel tempo e ampiamente coincidenti negli orizzonti il sorgere dell’occultismo ed i nuovi sviluppi di ciò che ormai viene indistintamente ammassato nella categoria mistificante della “speculative fiction”: la SF sulle orme di Dune e tutta la fantasy. Sebbene tutti, da Klein e Clute a Kelso e Stableford, manchino di dati solidi (e quelli esistenti si fermano a sei anni fa), è evidente che Ben-Yehuda ha ragione quando cita come condizioni abilitanti: primo, il disfacimento degli orizzonti politici della controcultura degli anni Sessanta (o di ogni altra politica di opposizione di massa) e la privatizzazione delle convinzioni organizzate; secondo, la tremenda perdita di prestigio della tecno-scienza, causata dalle guerre e dai disastri ecologici (87-88, 98-102). Non a caso l’ipotesi di Freud di un inconscio fuori dal tempo fu pubblicato nel 1915, mentre un’intera generazione veniva massacrata nell’orrida stasi delle trincee della Prima Guerra Mondiale.
Davanti a queste difficoltà, secondo me la fantascienza sembra avere tre (ma in effetti solo due) vie di uscita valide. La prima è di continuare con ciò che Stableford chiama “drammi futuristici in costume”, con le space operas, cancellando sempre più la differenza con la fantasy, nonchè con qualsiasi principio razionale di credibilità o causalità; il miglior rappresentante di questa opzione — che ora può vantare il dubbio marchio della sensibilità postmoderna — è sicuramente Samuel Delany, a partire da Dhalgren. La seconda opzione è di abbracciare orgogliosamente l’uso che fa la NASA delle hard sciences come unica forma legittima di fantascienza - chiamiamola “la scuola di Ben Bova” (Gregory Benford, ecc.). Questa forse non si estinguerà commercialmente, come profetizza (o teme) Stableford, ma diventerà la letteratura di quegli studenti di ingegneria e scienze che ancora leggono opere di narrativa-un gruppo che va assottigliandosi. Per il genere nel suo complesso, questa non è una soluzione.
La terza opzione — la sola che abbia qualche speranza di far fiorire quella SF seria o conoscitiva di cui Stableford ha previsto la fine — è quella che io vorrei provare a chiamare, in mancanza di una definizione più adatta, la linea che va da Ursula K. Le Guin a Kim Stanley Robinson. Questa linea, ricca e diversificata, va considerata, qualunque sia la sua tendenza politica attuale, di Sinistra, in quanto ha ereditato dalla filosofia europea e dal periodo dello Stato assistenziale (da Lenin a Keynes) l’impegno all’uso di una ragione calda almeno per gettare luce sul perchè la gente conviva così malamente, ma anche per dibattere cambiamenti radicali nel modo di vivere-forse anche attraverso opposti ludicamente distorti (per esempio Iain Banks). In pratica, ciò oggi significa un’inimicizia contro la nuova supremazia che unisce gli USA con il WTO e il FMI. Soprattutto vorrei qui includere tutta la SF femminista meditata e autocritica, dalla prima Joanna Russ attraverso Suzy M. Charnas, Le Guin e Pamela Sargent, fino a C.J. Cherryh e Gwyneth Jones. In poche parole: o la SF diventerà integralmente critica o alla fine sarà sconfitta dalla fantasy e fallirà come genere di massa.
Se le cose stanno così, è doveroso riflettere su cosa potrebbe essere oggi una critica integrale o radicale, cioè su come scrivere una simile SF. Certamente non soltanto sotto forma di aperti orizzonti utopici, perché la satira, la distopia e altre deformazioni anamorfiche sarebbero ancora più adatte. Si può arrivare a capire le modalità disponibili solo con una feedback a partire dalle opere migliori. Ma sospetto che dovrebbero includere la demistificazione del potere ingiusto e delle ipocrisie da lavaggio del cervello.
Suppongo di dovere, ai lettori di SFRA, la spiegazione del perché non ho riportato echi dall’articolo di Stableford apparso nella metà del 2000 in Foundation (vedi Bibliografia), e soprattutto del suo “Post Scriptum” in Science-Fiction Studies 30 (2000): 338-41. La ragione è che The Final Chapter of SF? On Reading Brian Stableford fu scritto alla fine del 2000 e inviato a una rivista inglese di critica di SF (di cui non citerò il nome) per essere pubblicato. Dopo alcune peripezie iniziali via e-mail, non ho più saputo nulla dalla redazione per più di un anno, e le mie domande non sortirono alcun effetto. Più di due anni dopo, mi capitò di incontrare il redattore della rivista che mi spiegò che mi avevano risposto via e-mail, dicendo che l’articolo era “troppo accademico” per essere pubblicato presso di loro (non ho mai ricevuto la loro e-mail)… Lascio a chi mi legge l’ardua sentenza.
Benjamin, Walter. Gesammelte Schriften. Frankfurt: Suhrkamp, 1980-.
Ben-Yehuda, Nachman. Deviance and Moral Boundaries. Chicago: U of Chicago P, 1985.
Chapman, Gary. Taming the Computer, in Flame Wars. Ed. Mark Dery. Durham, NC: Duke UP, 1994. 297-319.
Clute, John. Look at the Evidence. Liverpool: Liverpool UP, 1995.
Elkins, Charles. An Approach to the Social Functions of Science Fiction and Fantasy, in The Scope of the Fantastic. Ed. Robert A. Collins & Howard D. Pearce. Westport, CT: Greenwood P, 1985. 23-31.
Gorz, André. Métamorphoses du travail — Quête du sens. Paris: Galilée, 1988.
Haraway, Donna J. Modest Witness @ Second Millennium. New York: Routledge, 1997.
Hartwell, David. Age of Wonders. New York: Walker, 1984.
Kelso, Sylvia. Whadd’ya Mean, "Narrative"? in Para.Doxa 4.11 (1998): 431-51.
Klein, Gérard. Trames et moirés, in Marcel Thaon et al. Science-fiction et psychanalyse. Paris: Dunod, 1986. 47-151.
Marx, Karl. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse). Tr./cura Giorgio Backhaus. Torino: Einaudi, 1976.
Parrinder, Patrick. The Age of Fantasy, in The Failure of Theory. Brighton: Harvester P, 1987. 109-14, 214.
Russ, Joanna. To Write Like a Woman. Bloomington: Indiana UP, 1995.
Scholes, Robert. Boiling Roses, in Intersections: Fantasy and Science Fiction. Ed. George E. Slusser & Eric S. Rabkin. Carbondale: Southern Illinois UP, 1987. 3-18.
Stableford, Brian. The Final Chapter of the Sociology of Science Fiction, in Foundation 79 (2000): 41-58.
Suvin, Darko. Considering the Sense of "Fantasy" or "Fantastic Fiction”, in Extrapolation 41.3 (2000): 209-47 (ampliato in Orizzonti del fantastico. A c. Alessandra Contenti. CD, Dip. Lett. Comparate, U Roma Tre, 2002).
---. Metamorphoses of Science Fiction. New Haven, CT: Yale UP, 1979. [ed. it. Le metamorfosi della fantascienza. Tr. Lia Guerra. Bologna: Il Mulino, 1985.]
Tolkien, J.R.R. On Fairy-stories, in The Tolkien Reader. New York: Ballantine, 1973. 3-84. [ed. it. Sulle fiabe. Tr. Carlo Donà. Il medioevo e il fantastico. Milano: Bompiani, 2003. 167-238.]
A meditation on SF's role and possible developments within a literary market more and more dominated by fantasy - or, more precisely, by a strictly commercial notion of fantasy.
Primavera 2012
di Alessandro Fambrini, Salvatore Proietti
di Darko Suvin
Il ritorno alla materia di Earthsea negli anni Novanta rappresenta un nuovo vertice nella produzione di Ursula K. Le Guin, non meno della classica trilogia degli anni Settanta, e uno dei massimi risultati del genere fantasy negli Usa. Come nella sua SF, emergono il rifiuto delle facili dualità e le ambiguità di ogni promessa utopica, in cui fallibilità equivale ad apertura e ogni equilibrio deve essere instabile. In una revisione femminista, ecologista e anti-individualista dei primi volumi, genere e magia interagiscono in una maniera prettamente laica, permettendo all'approccio politico di affrontare l'ineffabile dimensione metafisica rappresentata dai draghi.
di Daniela Guardamagna
L'articolo pone a confronto gli ultimi due volumi del ciclo di Earthsea con i precedenti quattro romanzi. Sia Tales from Earthsea sia The Other Wind approfondiscono da un lato la componente femminista, dall'altro la metafisica "non-religiosa" derivata dal taoismo. In un confronto aperto con la prospettiva della morte (letterale e metaforica), risulta sempre più impellente la necessità di rifiutare ogni forma di chiusura ed esclusione.
di Salvatore Proietti
L'articolo esplora gli ultimi anni della produzione letteraria di Ursula K. Le Guin, come parte di un intertesto più ampio, che abbraccia tutta la sua carriera, prendendo anche in considerazione la posizione dell'autrice all'interno dell'istituzione letteraria italiana e statunitense. Fra i filoni di indagine sono il ruolo della comunicazione narrativa come forme di dialogo e memoria collettiva, l'articolazione della differenza, e le modalità in cui le antropologie aliene e fantastiche di Le Guin, anche negli scenari distopici, proseguono l'elaborazione - con la visione femminista sempre al centro - di modelli "ambigui" e aperti di utopia.
di Vittorio Catani
Cenni sul faticosissimo inizio e relativo cammino, tutto in salita, d'una critica della fantascienza nel nostro Paese fra sostenitori, oppositori, denigratori e acuti - talora anche illustri - osservatori. Ma i nodi della fantascienza italiana ancor oggi non appaiono del tutto risolti.
di Massimo Del Pizzo
Una rassegna della critica italiana - accademica e militante - sui testi classici e formativi della SF francese.
di Darko Suvin
Considerazioni sul ruolo e sui possibili sviluppi futuri della SF all'interno di un mercato letterario dominato - in maniera crescente - dalla fantasy, o meglio dalle sue forme piu' commerciali.
di Alessandro Fambrini
La fantascienza tedesca ha un'illustre compagna di strada nella produzione utopica che, di tradizione "alta", nel corso del Novecento s'intreccia con la letteratura popolare e dà vita ad alcune delle sue più straordinarie visioni. In questo articolo se ne ripercorre il filo fino alle soglie del terzo millennio.
di Fredric Jameson
La trilogia marziana di Kim Stanley Robinson aggiorna il genere utopico per l'epoca postmoderna. L'idea di storia (il permanere della sua pertinenza al futuro umano) è la posta in gioco nella complessa rete di alternative esplorate in una narrazione che intreccia scienza, ecologia, filosofia e politica nel tessuto del repertorio della fantascienza.
di Alessandro Fambrini
Fabrizio Foni. Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane, 1889-1932 (prefazione di Luca Crovi, postfazione di Claudio Gallo). Latina: Tunué, 2007. pp. 334, Euro 22,50.
di Igina Tattoni
Paolo Bertetti e Carlos Scolari, a cura di. Lo sguardo degli angeli: Intorno e oltre Blade Runner. Torino: Testo & Immagine, 2002. pp. 283, Euro 16,00
di Antonino Fazio
Valerio Massimo De Angelis e Umberto Rossi, a cura di. Trasmigrazioni: I mondi di Philip K. Dick. Firenze, Le Monnier, 2006. pp. 288, Euro 21,50
di Alessandro Fambrini
Arno Schmidt. Specchi neri, a cura di Domenico Pinto. Sant’Angelo in Formis (CE): Lavieri, 2009. pp. 117, Euro 14,50.
di Fulvio Ferrari
J.R.R. Tolkien. Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, a cura di Wu Ming 4. Milano: Bompiani, 2010. pp. 97, Euro 9.
di Salvatore Proietti