Lo storicismo di Suvin

Riflessioni su Defined by a Hollow

di Riccardo Capoferro

Riccardo Capoferro è ricercatore di Letteratura inglese alla "Sapienza" di Roma. Si è occupato, tra l'altro, delle origini della fantascienza e del fantastico nella cultura inglese sei e settecentesca, nei volumi Empirical Wonder: Historicizing the Fantastic, 1660-1760 (Bern: Peter Lang, 2010) e Leggere Swift (Roma: Carocci, 2013).

Per presentare Defined by a Hollow a lettori che non abbiano piena familiarità con il lavoro di Suvin ci vorrebbe una task force di specialisti: un teorico marxista, un semiologo, un comparatista, uno storico della cultura e dell’economia e, va da sé, un teorico della fantascienza e dell’utopia. Il mio punto di vista specifico, inevitabilmente più angusto, è invece quello di un settecentista che ha a lungo lavorato sui resoconti di apparizioni e i viaggi immaginari prodotti nella cultura inglese d’inizio Settecento. Credo però che dalla mia angolatura – ossia alla luce del mio legame con una disciplina fortemente codificata – si vedano, in Defined by a Hollow, alcuni tratti del lavoro di Suvin che sono rilevanti non solo per la comprensione della fantascienza, ma per gli studi letterari nel loro insieme.

L’opera di Suvin si distingue, infatti, per una percezione dei generi letterari che combina preoccupazioni estetiche, storiche e socio-culturali, e per una concezione degli obiettivi e dei metodi della critica che ne privilegia l’autonomia e la componente creativa. A questo si aggiunge un forte impegno interdisciplinare. Nel corso della sua carriera, Suvin ha sistematicamente eluso i confini metodologici e cronologici: i saggi inclusi in Defined by a Hollow sono contraddistinti da un vivace eclettismo, da una visione a largo raggio della storia letteraria, e da un’attenzione alla semantica dei generi che unisce in modo assai fecondo la prospettiva semiotica e quella socioculturale.

Detto altrimenti, il lavoro di Suvin sembra aver esplorato territori che le correnti dominanti della critica anglofona hanno solo sfiorato: questo nonostante le svolte linguistiche, teoriche e (neo)storicistiche che dalla fine degli anni ’70 in poi hanno dettato la storia delle discipline letterarie all’interno di molti circoli accademici. Ma è proprio la facilità con cui le varie svolte possono essere identificate e cartografate a suggerirne i limiti – e dunque a suggerire il valore dell’opera di Suvin. La fascinazione esercitata dai nuovi paradigmi ha infatti condotto a liquidare troppo rapidamente i paradigmi precedenti, decretandone l’obsolescenza. L’avvento di “nuovi” indirizzi di ricerca ha riorientato intere discipline, alterandone uniformemente il linguaggio, e nell’implicare il primato di un singolo metodo – e quindi di un singolo linguaggio – ha teso, di fatto, a scoraggiare il dialogo interdisciplinare: questo anche in virtù dell’esigenza di accreditarsi sul mercato del lavoro accademico mediante codici e obiettivi di ricerca facilmente condivisibili (e commerciabili).

 Tale fenomeno ha contraddistinto in particolare gli USA, in cui l’interesse per la semiotica e l’antropologia che è alla base delle svolte teoriche avvenute tra gli anni ’70 e gli anni ’80 sembra essersi spento. L’influenza di queste discipline si è congelata all’interno di vocabolari critici e assunti metodologici che quasi mai vengono messi in questione, per esser poi soppiantata dall’avvento di altre metodologie. Se si prendono come osservatorio gli studi settecenteschi, risalta, ad esempio, il recente successo dalla bibliografia descrittiva, adesso divenuta parte integrante della book history e tornata in auge nei primi anni 2000 sulla scorta delle ricerche condotte in Europa da figure come Roger Chartier e Guglielmo Cavallo. Il materialismo della prospettiva bibliografica – inteso come correttivo agli eccessi post-strutturalisti – è, in molti lavori prodotti dopo il 2000, un vero e proprio articolo di fede, e implica il netto rifiuto di metodi precedenti.

Il rapido mutare dei paradigmi ha comportato anche il mutamento di quell’oggetto già di per sé elusivo che è la testualità letteraria, talvolta cancellandola del tutto dall’orizzonte di indagine. Anziché concentrarsi sui meccanismi degli artefatti estetici, gli studiosi di letteratura hanno spesso teso a studiarli in funzione di qualcos’altro.  È questo, ad esempio, il caso di molta critica neostoricista: seguendo il modello della storia delle idee, già ben radicata negli ambienti accademici statunitensi, molti studiosi neostoricisti hanno subordinato l’analisi letteraria all’analisi della cultura in senso lato. Ma le loro finalità si sono mostrate indipendenti dall’esempio della storia delle idee: seguendo il modello di Foucault e di chi, come il Greenblatt di Invisible Bullets, ne ha reinterpretato i modelli, hanno spesso inteso la cultura come una macchina ideologica monolitica e onnipervasiva. Nell’ottica neostoricista, “cultura” fa tutt’uno con “ideologia”, e il lavorio dell’ideologia risulta osservabile nella varietà delle forme discorsive, rivelandosi in grado di piegare anche i significati in apparenza più sovversivi a poche funzioni di fondo, marcatamente normative.  

Defined by a Hollow, come l’intera opera critica di Suvin, va in tutt’altra direzione, perché dimostra un’attitudine interdisciplinare svincolata dalle tendenze accademiche e dai repentini avvicendamenti epistemologici, e immune alle infatuazioni che hanno animato il clima poststrutturalista. L’indipendenza e la produttività di quest’attitudine si vede con particolare chiarezza nel modo in cui Suvin concepisce i generi letterari, irriducibile alla pratica critica del neostoricismo. Un paragone con quest’ultimo si rende, in effetti, inevitabile, perché il suo punto di vista duplice, ideologico e storico-culturale insieme, sembrerebbe suggerire una forte analogia con il metodo e gli obiettivi di Suvin. 

La svolta neostoricista, il cui impatto sugli studi letterari è a tutt’oggi avvertibile, ha senz’altro avuto il merito di enfatizzare il nesso tra testi letterari e storia sociale e intellettuale. Come accennavo, però, il neostoricismo ha peccato di scarsa sensibilità formale: ha spesso lasciato sfumare le differenze tra testi estetici e non, riconducendoli alle meccaniche pervasive e uniformanti dell’ideologia. Nella prospettiva – assai influente e perciò rappresentativa – del primo Greenblatt, il funzionamento intrinseco dei singoli generi è il più delle volte irrilevante. Il fine principale dello studio della “cultura” consiste invece nell’accostare forme discorsive apparentemente irrelate in cui l’intelligenza del critico ha saputo identificare collegamenti, ricompresi entro un’unica funzione ideologica di fondo. Di qui i risvolti di copertina di molti studi, anche recenti, che con un velato sensazionalismo pubblicizzano la loro capacità di mettere in rapporto testi letterari con forme testuali di tutt’altro tipo (testi politici, medici e giurisprudenziali, teorie economiche, ecc.).

Come molta critica neostoricista, anche il lavoro di Suvin s’incentra sulle implicazioni ideologiche degli artefatti culturali, che da buon marxista lo studioso cala nelle necessità del loro contesto originario. Ma la pratica di Suvin si differenzia in virtù di un’attenzione serrata alle dinamiche estetiche: è fondamentale capire la letteratura prima ancora delle sue funzioni ideologiche. Di qui la presenza, nei suoi lavori, di una vasta gamma di modelli formalisti e semiotici che spaziano dalla semiotica interpretativa di Eco alle teorie dei mondi possibili. Al tempo stesso, Suvin concepisce il rapporto tra letteratura e ideologia in modo assai sfaccettato, adottando una concezione del divenire storico più dinamica di quella sottesa a molti studi nati dalla temperie post-strutturalista.

La categoria in cui si compendia la percezione di Suvin è quella, celeberrima, di “novum”, definita nel saggio Science Fiction and the Novum incluso in Defined by a Hollow e – come ben sanno gli studiosi della fantascienza e dell’utopia – centrale anche nell’impalcatura teorica e storica di Metamorphoses of Science Fiction. A rischio di ripetere ciò che è già ben noto, vorrei qui evidenziare, soffermandomi sull’idea di novum, i tratti più rilevanti della sua prospettiva teorica.

Il novum è un insieme di oggetti e relazioni interni all’universo fittizio, che sono descritti e resi credibili tramite un sistema di verosimiglianza derivato dall’epistemologia empirica. È, detto altrimenti, un costrutto fittizio che appare compatibile con – e dunque descrivibile da – la visione della realtà legata alla mentalità post-baconiana. Ma nell’ottica teorica di Suvin la qualità non-empirica del novum non ne decreta l’appartenenza a un mondo d’invenzione ermeticamente sigillato. La rappresentazione fantastica del novum è infatti volta a rinnovare la nostra percezione del mondo dell’esperienza: il fine del novum è evidenziare aspetti dell’esistenza socio-culturale opacizzati dall’ideologia e in tal modo problematizzare la percezione del presente, aprendo spiragli per il cambiamento.

Le implicazioni dell’idea di novum investono quindi più livelli. In primo luogo, risalta la capacità del novum di spiegare i meccanismi formali in rapporto alla cultura extraletteraria. Nonostante la sua dichiarata ispirazione marxista, Suvin rivolge la propria attenzione non al discorso ideologico in senso lato, bensì a una forma e ai suoi caratteri intrinseci. E però l’esplorazione di tali caratteri comporta un inevitabile allargamento di prospettiva. La categoria di novum mette in luce il modo in cui la fantascienza è influenzata da modelli cognitivi che circolano al di fuori del dominio della letteratura d’invenzione. Il novum definisce, dunque, le entità e le relazioni che ricorrono in un genere specifico, e a tal fine prende in considerazione le strutture cognitive che ne innervano la componente descrittiva, riconducibili, come si è detto, all’epistemologia empirica.

L’altro punto centrale dell’idea di novum, che ne rafforza la rilevanza sul piano della riflessione storiografica, risiede nel suo particolare impiego di modelli derivati dalla semiotica interpretativa: come accennavo, Suvin usa questi ultimi non solo per comprendere le meccaniche dei testi letterari, ma anche per valutarne il potenziale ideologico-politico. Il novum presuppone infatti un lettore implicito che coopera con il testo e a sua volta ne riceve gli stimoli. Nonostante la sua natura di costrutto finzionale, esso è dunque inteso non ad allentare la pressione esercitata dal mondo empirico, bensì a suscitare nel lettore, mediante una rappresentazione straniata, una più acuta percezione della realtà socio-culturale che lo circonda. Il novum attua, per dirla con Suvin, uno “straniamento cognitivo” (il richiamo è qui sia al Verfremdungseffekt di Brecht sia all’ostranenie di Šklovskij).

I più riusciti testi fantascientifici e utopici sono quindi, nell’ottica di Suvin, protesi ad allentare il condizionamento ideologico e a stimolare così l’azione individuale, illuminando i limiti – e dunque la possibile apertura – dell’orizzonte sociopolitico in cui si muove il lettore. Essi implicano, in altri termini, una concezione dinamica della storia, che valorizza l’azione e la volizione individuale. La capacità dell’arte di favorire il cambiamento storico, facendo appello sia alla cognizione sia al desiderio, è ribadita anche in un altro importante saggio incluso in questo volume, On Cognition as Art and Politics, nel quale si rileva la capacità della rappresentazione artistica di “insisting on the lateral possibilities of historical life, which might feed into a different future” (298).

Diversamente dalle categorie adottate da molta critica post-strutturalista, specialmente d’ispirazione foucauldiana, il novum presuppone quindi la possibilità di un’azione sociale innovativa rispetto allo status quo. Questo è tutt’altro che irrilevante. Nella critica degli ultimi decenni la fiducia nell’azione individuale e nelle possibilità della storia sembra infatti scarseggiare. L’attenzione al funzionamento sincronico dei processi ideologici e alla loro pervasività ha spesso portato – specialmente negli studi neostoricisti o postcoloniali – a rimuovere dall’orizzonte d’analisi la tensione al cambiamento, il tentativo della letteratura e, prima ancora, dei soggetti che l’hanno prodotta, di sfuggire alle pastoie etiche ed espressive dell’ideologia. Tale rimozione è ovviamente scaturita da tanti fattori, ai quali qui non si può che far cenno rapidamente. In buona parte, essa è espressione di una fantasia di azione politica, derivante da preoccupazioni che – come ha notato John Guillory – sono, nel contesto statunitense, legate alla progressiva marginalizzazione degli studi letterari e all’inevitabile centralità della identity politics. Se per un verso questa fantasia ha trasformato la critica letteraria in un ciclopico grido d’allarme, per un altro ha ridotto drasticamente la sua capacità conoscitiva, spingendo la denuncia così in là da rendere il suo oggetto – l’ideologia – un’entità di dimensioni irreali.

Al contrario, la teoria di Suvin mette in diretta correlazione produzione estetica e azione individuale. E questo non solo rispetto alla creazione e fruizione dei testi letterari. Per comprendere la rilevanza delle teorie di Suvin – la loro esemplarità – va infatti presa in considerazione anche la sua concezione del lavoro critico, anch’essa tratteggiata in Defined by a Hollow, sia direttamente sia implicitamente. La possibilità dell’azione individuale e di una percezione straniata, che tanto peso ha nella semantica dei generi di Suvin, trova un eloquente correlativo nella sua concezione dei metodi, i fini e le prerogative della critica. Secondo Suvin l’attività critica dovrebbe infatti esser plasmata da una continua ricerca d’innovazione, tesa a fuggire le descrizioni ossificate e omologanti dei fatti culturali.

In accordo con quest’assunto, la terminologia che Suvin adotta nei saggi di Defined by a Hollow si mostra libera dalle restrizioni retoriche imposte dalle identità disciplinari. Tali restrizioni hanno un’origine complessa. La libertà di cui il lavoro di Suvin è una formidabile espressione si definisce non solo in rapporto alle regole interne del sistema accademico; è anche una libertà dalle pressioni del mercato, che con il sistema accademico, specialmente quello anglofono, sono fittamente compenetrate. La terminologia di Suvin rifugge i meccanismi semiotici che fanno tutt’uno con la mercificazione del discorso critico: rifugge le tendenze di un’industria editoriale che scoraggia non solo l’uso di commistioni terminologiche, ma anche (specialmente in ambito umanistico) il lessico tecnico tout court.

I saggi inclusi in Defined by a Hollow documentano quindi la riluttanza di Suvin a sacrificare la prospettiva interdisciplinare a favore di un surrogato di intrattenimento. Ma è importante precisare che quest’attitudine non nasce da una concezione rigidamente razionalista della critica, che potrebbe risultare altrettanto restrittiva. Nasce, al contrario, dalla convinzione di Suvin che la (buona) critica nasca da un compiuto atto creativo, volto a fuggire le chiusure ideologiche, i dogmi epistemologici e i perimetri disciplinari, al fine di illuminare problemi non ancora pienamente cartografati.

È in questo senso eloquente il saggio Where Are We? How Did We Get Here? Is There Any Way Out?, nel quale Suvin scrive che  “Conceptual argumentation is absolutely necessary but only if shot through by poetry may it be sufficient”. Nello stesso saggio, citando Mary Hesse, Suvin nota che “every theoretical explanation is thus also a ‘metaphoric redescription of the domain of the explanandum’” e che dunque “rationality consists just in the continuous adaptation of our language to our continually expanding world, and metaphor is one of the chief means by which this is accomplished” (174). Non solo ai poeti, ma anche ai critici, afferma Suvin, qui in ideale accordo con Paul Ricoeur, è dato pensare per tramite di metafore e di analogie, trasformando il linguaggio e così ampliando la percezione del mondo. E in On Cognition as Art and Politics (269-320) ribadisce ulteriormente il legame tra la carica creativa del linguaggio critico e la produzione di conoscenza innovativa. Il suo è un invito a forzare il linguaggio codificato e a trascendere gli assunti fondamentali dei discorsi disciplinari, condizionati da meccaniche economiche e pertanto condannati a produrre conoscenza ridondante. Quest’idea ritorna in What May the Twentieth Century Amount to (361-380), una riflessione sul lavoro intellettuale nel ventesimo secolo, che valorizza “overriding analogies that shatter disciplinary boundaries” (365).

Defined by a Hollow mostra, in conclusione, come la teoria critica di Suvin e la sua concezione del lavoro intellettuale – tra loro, va da sé, strettamente interconnesse – siano irriducibili ai presupposti ideologici e retorici che hanno accomunato buona parte della pratica critica degli ultimi decenni. E, a conferma di un’autentica tensione conoscitiva, mostra al tempo stesso come la resistenza all’omologazione derivi anche dalla necessità di restare fedele all’oggetto della propria ricerca – gli artefatti estetici – in modo da conseguirne una comprensione più profonda. Quests fedeltà non nasce, ovviamente, da un cieco rispetto delle consuetudini disciplinari; nasce, al contrario, dalla ricerca di sapere oggettivo, che oltre a render liberi dai condizionamenti esterni incoraggia la più ardita interdisciplinarità.

La traiettoria intellettuale disegnata in Defined by a Hollow rivela, in effetti, una proficua combinazione di coerenza e avventurosità. Suggerisce, in particolare, come una comprensione approfondita dei meccanismi estetici sia d’aiuto a percepirne il ruolo anche al di fuori dei contesti abituali e in rapporto a problemi d’ordine diverso, la cui natura può – con uno scarto metodologico – diventare più intellegibile. Questo si vede nella critica sociale e culturale di Suvin, in particolare nel saggio sulla “Disneyfication” (217-268). Per sviscerare il potere illusorio dell’industria dell’intrattenimento – la cui manifestazione più saliente è Disneyland – Suvin sviluppa le sue teorie dell’utopia, allontanandosi però dall’universo della rappresentazione romanzesca. E nel far ciò mostra come lo studio del linguaggio della narrativa d’invenzione sia utile non solo alla storiografia letteraria, poiché offre strumenti per comprendere il potenziale mistificatorio insito in ogni rappresentazione, non importa se verbale, visuale o multimediale.

 

BIBLIOGRAFIA

Cavallo, Guglielmo e Roger Chartier, a cura di. Storia della lettura. Roma: Laterza, 2009.

Greenblatt, Stephen. Invisible Bullets: Renaissance Authority and Its Subversion. In Shakespearean Negotiations: Essays on Cultural Materialism. Berkeley: U of California P, 1988. 21-65.

Guillory, John. Cultural Capital: The Problem of Literary Canon Formation. Chicago: U of Chicago P, 1993.

Suvin, Darko. Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre. New Haven: Yale UP, 1979.

––. Defined by a Hollow: Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology. Oxford: Peter Lang, 2010.