Alessandro Fambrini, docente di Letteratura tedesca presso l’Università di Trento, è componente del comitato di redazione di Anarres. Tra le sue ultime pubblicazioni nel campo del fantastico, la cura e traduzione di opere di Kurd Lasswitz e Hanns-Heinz Ewers, e dell'antologia Der Orchideengarten (Hypnos, 2016).
Nella corposa, densa, stimolante postfazione a La casa dell’alchimista di Gustav Meyrink (Gustav Meyrink tra fantasia ed esoterismo), che riprende e aggiorna al 2008 un’Introduzione del 1981, Gianfranco de Turris tira le somme del suo lungo affaccendarsi con l’opera dell’autore praghese (perlomeno per vocazione: in realtà sappiamo come Meyrink fosse viennese), riprendendo precedenti interventi (a partire dalla prefazione ai Racconti di cera del 1972) in occasione di questa nuova edizione di una delle sue opere più dense ed enigmatiche (anche perché inconclusa).
Non c’interessa qui tanto andare nello specifico dell’interpretazione deturrisiana, che nel secondo capitolo ripercorre con dovizia di particolari il canale del Meyrink esoterico, quanto piuttosto analizzare una serie di affermazioni contenute nella prima parte, che tendono a mettere in discussione il “trattamento” che all’autore austriaco ha riservato nel corso degli anni la critica nel nostro paese, e in particolare la germanistica, alla quale è affidato un ruolo minimizzante, se non denigratorio. Meyrink, per questo motivo, apparirebbe escluso, almeno da noi, dal pantheon dei grandi autori del Novecento.
Scrive de Turris che “certo, i critici accademici, i germanisti di professione, coloro i quali non tollerano che i non ‘addetti ai lavori’ entrino nell’orticello della loro ‘specializzazione’, coloro che per formazione mentale e culturale non accettano né possono accettare che esistano ‘visioni del mondo’ come quella di Gustav Meyrink, cioè spirituale, esoterica e ‘magica’, hanno negato, ridicolizzato e al limite (non potendo avanzare la scusa di ignorarle) stravolto e capovolto le affermazioni dell’autore austriaco e le tesi delle sue opere, non credendo alla sincerità e all’onestà di quando [sic] diceva e scriveva. Meyrink è pressoché ignorato dalle molte storie della letteratura di lingua tedesca, ma i pochi che se ne sono occupati sono esempi significativi in negativo” (123). Affermazioni categoriche, alle quali vorrei rivolgere un paio di obiezioni.
La prima riguarda i presupposti dai quali de Turris muove e la avanzo a puro titolo di constatazione. È vero che, nelle numerose occasioni in cui Meyrink è stato presentato nel nostro paese (solo Il Golem è stato pubblicato in una decina di diverse edizioni, a partire dal 1926, molte di queste ristampate più volte), ben poche pubblicazioni sono state affidate alle cure di germanisti (a quanto mi risulta solo la Notte di Valpurga, uscita nel 1983 presso Studio Tesi e dotata di un ricco saggio introduttivo di Marino Freschi) e che si è privilegiato piuttosto affidarne le sorti a specialisti di altri settori, dai filosofi agli studiosi del mito a quelli della letteratura fantastica (come de Turris). Ma credo che ciò sia dovuto a logiche editoriali, che hanno visto prevalere alternativamente ragioni di “cassetta” (il richiamo commerciale di un romanzo come Il golem) e di proposta mirata a un pubblico specifico facendo affidamento sul taglio elitaristico-esoterico della maggior parte della sua produzione. La germanistica, con tali ragioni, non ha molto a che fare. E inoltre i “germanisti” non sono un’entità astratta, né una bestia dalle cento teste. Sono individui, ognuno dei quali ha alle spalle una storia precisa, un percorso di formazione e un’identità ben specifica. De Turris sembra sottintendere, invece, che tutti quanti siano omologati a quella che secondo le sue categorie è “cultura di sinistra”, siano anzi probabilmente marxisti e comunque fieri avversatori di scrittori amati dalla destra come Meyrink. Salvo smentirsi quando è costretto a citare le eccezioni, e non di secondo piano, visto il profilo di Freschi.
L’obiezione, tuttavia, che conta e ha più sostanza riguarda il contenuto. Che Meyrink sia “pressoché ignorato dalle molte storie della letteratura di lingua tedesca” è palesemente falso, e non solo perché le storie italiane della letteratura tedesca sono tutt’altro che molte (e altra cosa sono la “Garzantina letteraria” o il Dizionario biografico degli autori della Fabbri-Bompiani, cui sono attribuiti due dei suddetti giudizi svalutatori). A Meyrink, in genere, è riservato lo spazio di autore minore, e non sempre in chiave negativa. L’atteggiamento della germanistica italiana nei suoi confronti andrà misurato semmai sugli scritti che ne prendono in esame la figura e le opere in vari ambiti: gli studi riguardanti la letteratura di Praga come quelli di Marino Freschi, opportunamente ricordato da de Turris e anzi invocato come l’unico “importante esempio positivo” (123), non solo con il testo che de Turris cita, Praga. Viaggio letterario nella città di Kafka, ma già in La Praga di Kafka); gli studi su espressionismo e modernismo, fra i quali Paolo Chiarini nel suo classico L’espressionismo tedesco fa appena un riferimento a Meyrink, ma in termini di apprezzamento per il suo ruolo di “iniziatore […] di un caratteristico gusto di lontana estrazione hoffmanniana per il ‘perturbante’” (76); o gli articoli a lui dedicati, ad esempio la recensione di Claudio Magris del 1972 citata da de Turris, e la voce di Ida Porena nella silloge Il romanzo tedesco del Novecento.
Sembra che de Turris sia andato a cercare pro domo sua giudizi negativi di sedicenti germanisti. E allora ecco dizionari e Garzantine, il recupero di valutazioni d’antan, come quella di Alberto Spaini, o il richiamo ad accademici che germanisti non sono, come Angelo Maria Ripellino. Semmai, volendo portare acqua al suo mulino, de Turris avrebbe potuto citare Cesare Cases che, proprio in una recensione alla Praga magica di Ripellino, emise un verdetto tranchant, com’era suo costume: “Chi vuole il morto che parla legga Meyrink: gli potrà suggerire i numeri del lotto, oppure le dottrine esoteriche care a Julius Evola” (442).
Ma la germanistica è anche altrove, e nel 2009 è uscito un volume di Margherita Cottone, La letteratura fantastica in Austria e Germania (1900-1930). Gustav Meyrink e dintorni, che ricostruisce una storia diversa. Per quello che riguarda Meyrink, in particolare, già da anni Cottone si era distinta attraverso analisi puntuali e ripetute e, nel 1998, in un articolo sul fantastico austriaco di primo Novecento, aveva ripercorso a volo d’uccello la sua fortuna critica in Italia, riprendendo e confrontando posizioni. In quest’ultimo scritto, tra l’altro, lo stesso de Turris è chiamato in causa con il giusto riconoscimento per il suo appassionato lavoro, anche se il suo farsi alfiere di un Meyrink per iniziati, sembra di capire, secondo Cottone non porta molto lontano: “La critica di de Turris, sicuramente un promotore ed entusiasta dell’opera di Meyrink in questi ultimi anni, è purtroppo spesso neutralizzata dal tono a volte enfatico dei suoi lavori, il tono di chi ‘sa’ e conosce le vere esperienze esoteriche e ‘irrazionali’, pur sforzandosi di analizzare gli aspetti formali dell’opera meyrinkiana, non sempre riconosciuti adeguati al suo alto contenuto” (La ricezione italiana 19).
Dalla rassegna di Cottone emerge un atteggiamento non preconcetto nei confronti di Meyrink, misurato su una serie di interventi accorti e attenti, certo non sempre encomiastici: ma la critica non deve esserlo per forza, non è questo il suo senso. Primo tra essi quello di Ida Porena sul Golem in Il romanzo tedesco del Novecento, una rassegna critica curata, oltre che da Giuliano Baioni e Giuseppe Bevilacqua, anche da quel Cesare Cases di cui si diceva poco fa e dall’artefice numero uno del pregiudizio antimeyrinkiano in Italia secondo de Turris, Claudio Magris. Porena risale con finezza e sensibilità i fili labirintici della complessità meyrinkiana, tenendo insieme le varie componenti che nel romanzo emergono solo sporadicamente a visibilità narrativa, senza tacerne i punti di forza (“Il Golem concentra in un esito letterario perfettamente congegnato le esperienze narrative del Meyrink novelliere e nello stesso tempo – di qui il suo fascino ambiguo – salda il debito dello scrittore con un passato oscuro e malefico, dal quale la nera Praga degli alchimisti e dei maghi […] emerge quasi a farsi simbolo, vivente e tangibile, del profondo”, 124) né quelli di debolezza, individuata in particolare nell’artificiosità della tecnica narrativa, inadeguata a specchiare i moti del profondo: “Il Golem è una metafora troppo semplice narrata in maniera troppo complessa, è il tentativo di esteriorizzare, illustrandolo con immagini alla moda, un processo di autoindividuazione cui converrebbero tutt’altri strumenti analitici e linguistici” (129).
E se Il romanzo tedesco del Novecento è una specie di storia della letteratura narrata attraverso opere esemplari, vi è in Italia una “vera”, canonica storia letteraria, quasi “la” storia della letteratura tedesca per antonomasia, alla quale la volontà ideologica di comporre il ritratto di un Meyrink bistrattato da una germanistica ostile, e ostile in quanto politicizzata, sembra avere impedito a de Turris l’accesso. Mi riferisco alla Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner (1971). È vero che Mittner dedica poche pagine a Gustav Meyrink, ma in esse si riflette un interesse condito da suggestioni non banali, come la definizione del Golem come “romanzo surrealistico ante litteram o più esattamente […] vero e proprio romanzo dada” (1117). Da questa direzione di accostamento a correnti della letteratura contemporanea che, non diversamente da Meyrink, fanno leva sulle suggestioni dell’inconscio e sulle pulsioni del profondo, potrebbero emergere spunti di ricerca fecondi, che Mittner non approfondisce ma si limita a indicare, per poi emettere un giudizio di sintesi che dovrebbe far gonfiare le penne a de Turris (e che, per inciso, si situa agli antipodi della valutazione di Porena, a riprova del fatto che molti germanisti magari sono di sinistra, ma non tutti uguali): “La bravura narrativa di Meyrink è grande ed eccezionale è la sua abilità di confondere, senza mai fonderli, la realtà e il sogno, il presente e il passato” (Mittner 1118). È questa in fondo la scia che Claudio Magris riprende, nel suo articolo del 1972 tanto inviso a de Turris, in cui sono eluse le trappole del Meyrink esoterico e si insiste sugli aspetti più specificamente narratologici della sua opera. Come scrive Cottone, “la sua [di Magris] acuta critica, ovviamente non accettata dai fautori del Meyrink esoterista, tende proprio a rivalutare il narratore piuttosto che il maestro di verità” (Cottone, La ricezione italiana 20).
Nonostante Mittner, resta il fatto che nel complesso l’accoglienza è tiepida, gli approfondimenti scarsi. La verità è che Meyrink è autore difficile, e probabilmente datato. Difficile non perché particolarmente complesso (il che sarebbe un merito, e motivo di stimolo a occuparsi di lui), ma perché il suo immaginario sembra seguire pesantemente un copione già scritto, quello delle categorie esoteriche nelle quali s’inscrive il suo pensiero e anche la sua vita. Senza di esse, l’impressione è quella di girare intorno a un cerchio (la stessa che Furio Jesi associa al comportamento della macchina mitologica) senza mai penetrarne il perimetro, e restando così confinati in una terra di nessuno in cui gli eventi sono sì simboli, ma di qualcosa che sfugge, e la loro risoluzione narrativa – qui sono d’accordo con Porena più che con Mittner – appare vaga.
Intanto, in un recente numero di Studia austriaca è contenuto uno studio di Marco Serio sul Golem: una lettura articolata in chiave psicologico-simbolica, con particolare riguardo alla problematica del doppio, del sosia, del dualismo tra io e non io. A dimostrare tutta l’incomprensione della germanistica italiana per Meyrink…
BIBLIOGRAFIA
Cases, Cesare. Praga la maga, in Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento. Torino: Einaudi, 1985. 439-444.
Chiarini, Paolo. L’espressionismo tedesco. Ed. riveduta. Bari: Laterza, 1985.
Cottone, Margherita. La ricezione italiana della “letteratura fantastica” del primo ’900 in Austria e Germania [1900-1930], in Studia austriaca 6 (1998): 9-34.
–. Il potere dello spazio e le leggende praghesi: Golem e marionette nella Città misteriosa di Gustav Meyrink, in Cultura tedesca 15 (2000): 97-108.
–. Strutture del fantastico e ruolo simbolico dello spazio nel Golem di Gustav Meyrink, in Cultura tedesca 19 (2002): 157-172.
–. La letteratura fantastica in Austria e Germania (1900-1930). Gustav Meyrink e dintorni. Palermo: Sellerio, 2009.
De Turris, Gianfranco. Gustav Meyrink tra fantasia ed esoterismo, postfazione a Gustav Meyrink, La casa dell’alchimista. [Siena]: Liberamente, 2008. 115-156.
Freschi, Marino. Presentazione. Il mondo magico di Gustav Meyrink. Intr. a Gustav Meyrink, La Notte di Valpurga. Tr. Albarosa Catelan. Pordenone: Studio Tesi, 1983. ix-xxv.
–. La Praga di Kafka. Napoli: Guida, 1990.
–. Praga. Viaggio letterario nella città di Kafka. Roma: Editori Riuniti, 2000.
Magris, Claudio. Diavoli a Praga, in Corriere della sera, 19 marzo 1972.
Meyrink, Gustav. Racconti di cera [tr. Rosa Pisaneschi]. Pref. Gianfranco de Turris. Roma: Edizioni del Gattopardo, 1972.
–. La casa dell’alchimista. A cura di Gianfranco de Turris. Tr. Piero Cammerinesi. Roma: Edizioni del Graal, 1981.
Mittner, Ladislao. Brod. Meyrink, in Storia della letteratura tedesca. Torino: Einaudi, 1978. Vol. III.1: 1117-1119.
Porena, Ida. Gustav Meyrink. Il Golem, in Il romanzo tedesco del Novecento, a cura di Giuliano Baioni et al. Torino: Einaudi, 1973. 123-130.
Serio, Marco. Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, in Studia austriaca 20 (2012): 33-53.
Spaini, Alberto. Meyrink, una favola, in L’Italia letteraria (Roma) 50 (11 dicembre 1933).
Inverno 2013/2014
di Salvatore Proietti
di David Ketterer
Nella sovrapposizione fra diversi modi (apocalittico, mimetico, ermetico) e generi letterari, la categoria dello "slipstream" è complessa e articolata in un'enorme quantità di combinazioni possibili. Nello slipstream l'elemento fantascientifico è presente ma non dominante, anche se può contribuire a determinare le possibili interpretazioni del testo. Il saggio fornisce poi una lettura di due casi: Pattern Recognition di William Gibson, che include un velato indizio di un mondo alternativo, e State of Wonder di Ann Patchett, con la sua esitazione fra realismo (allucinazione) e fantastico (una visione religiosa).
di Salvatore Proietti
Attraverso un'analisi diacronica, il saggio prende in considerazione l'opera di Philip K. Dick come intertesto, nella sua rete di relazione con i discorsi, le mitologie e i presupposti della controcultura degli anni Sessanta, interpretando il suo portato narrativo, in termini bachtiniani, come meditazione dialogica su di essa. Il radicamento di Dick nella corrente dei movimenti oppositivi statunitensi del suo tempo si costruisce attraverso una science fiction "anti-essenzialista" in cui l'etica ha il primato su ogni metafisica e il misticismo è uno strumento tra gli altri per interpretare l'umano. Dick, comunque, presenta le tracce di quel mondo ideologico a partire da una diversa "struttura del sentire", un punto di vista presentato anche in termini di classe che ne rifiuta alcuni degli aspetti dominanti, legati a concetti di individualismo radicale.
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di Antonino Fazio
La fantascienza presenta fin dalle sue origini una duplice anima: quella di letteratura popolare e quella di strumento concettual-speculativo, teso ad affrontare problematiche di vasto respiro. A partire da questa constatazione storica, l’articolo esplora i rapporti della fantascienza con il mainstream della teoria postmoderna, rimettendo in discussione lo schema tradizionale di una distinzione tra letteratura alta e bassa e rivedendo lo statuto del “meta-genere” della SF sulla base di uno spettro critico che dalle riflessioni di Walter Benjamin risale fino a quelle di Wu Ming 1 a proposito del New Italian Epic.
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