Robot in Canada: Una nota di archeologia lessicale

di Salvatore Proietti

Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018). 

Un paio d’anni fa, un brioso articolo comparso su Robot a firma “Lucius Etruscus” scavava a fondo nelle fortune del termine “robot” nel mondo anglofono. Già nell’Ottocento inglese, romanzieri e saggisti usavano il lemma di origine slava per indicare una forma di lavoro servile, di stampo feudale, di cui l’Europa centrale e orientale mostravano diffuse sopravvivenze. Non è illecito sospettare negli osservatori britannici un filo di sussiegoso compiacimento. Di certo, dalla ricostruzione appare una presenza carsica che il debutto londinese del RUR di Karel Čapek (il quale diede credito per il conio della parola al fratello e collega Josef) nell’aprile 1923, dopo quello praghese nel 1921, porta definitivamente alla superficie.

Osserva Etruscus che nell’autunno 1922 un’altra versione era andata in scena a New York, contemporaneamente a una commedia dal tema simile (Swifty, di John Peter Toohey e Walter C. Percival), ricordata soprattutto per la partecipazione di un semiesordiente Humphrey Bogart. In Nordamerica, dunque, l’icona dell’automa (già utilizzata in letteratura da Melville, Poe, Bierce) trova spunto di rivitalizzazione retorica nel nuovo termine, presto accettato da diverse riviste divulgative, per indicare non solo macchinari ma anche la condizione del lavoratore contemporaneo e generalmente quella umana.

Nella storia dei pulp è difficile individuare la primissima occorrenza. La coppia Stableford-Langford menziona The Psychophonic Nurse di David H. Keller (1928) in cui però, a una nostra verifica su una sua raccolta, la parola non compare. A questo racconto Sandro Pergameno aggiunge, dello stesso autore, The Threat of the Robot (1929), “un mondo invaso totalmente dai robot, usati in tutti i lavori e in tutte le professioni” (vii). Così, nelle riviste specializzate l’esordio lessicale coincide con l’inaugurarsi del tema che poi Isaac Asimov battezzerà “complesso di Frankenstein”.

A mo’ di digressione parziale, azzardo qui un’ipotesi: nell’epoca fordista, la metafora del robot oscilla fra un’accezione negativa associata alla disumanizzazione del lavoro operaio (come nello stesso RUR; cfr. Suvin 329-31), una degenerazione biopolitica che non lascia speranze, subito raccolta in Furore di Steinbeck (Grapes 37); e una più problematica, fondata su una visione meno lineare della storia. In Asimov (cfr. Portelli) – che riscrive all’inizio di Io robot anche la storia dell’automa-babysitter di Keller – e in Dick, il ruolo dei robot ritorna a essere forza-lavoro servile sostanzialmente precapitalistica, variante degli schiavi anche nella ricerca di integrazione. Rifuggire il complesso di Frankenstein, nella scettica ironia di entrambi, significa anche rifuggire le tentazioni dell’apocalisse antimoderna.

Agli archeologi della protofantascienza, allora, segnaliamo un testo che sembra rivendicare il diritto di primogenitura nell’uso della parola all’interno di una narrazione fantascientifica, incontrato a inizio anni Novanta nel corso di una ricerca sulle origini della SF anglocanadese. Il testo è un romanzo del 1926, The Master of the Microbe di Robert W. Service, pubblicato dalla prestigiosa McClelland & Stewart di Toronto e ristampato anche a Londra.

Nel melodrammatico thriller fantascientifico di Service, in reazione all’agnizione che prepara il finale – la doppia scoperta che un avventuriero zio del protagonista ha assunto l’identità di un altro suo zio, e quasi certamente è un boss del crimine organizzato internazionale – il narratore in prima persona, il giovane americano Harley Quin, si interroga sui possibili complici, e inizia dal maggiordomo:

Who could it be but Weast, the priceless valet, sharer of his master’s secrets; Weast, the grave, the impassible. Still waters run deep. Weast was like an automaton. Even his voice was mechanical, sort of a robot voice. With such an exterior a man could be a prince of villains and remain unsuspected. Who know but that Weast was the soul and centre of the plot, had conceived and executed it? (363; corsivo in orig.)

Non è che un climax tra i tanti, e il ruolo dell’intrigante valletto viene un poco ridimensionato rispetto ai sospetti iniziali, ma la parola è stata pronunciata: il tema della disumanizzazione ha un nuovo veicolo metaforico.

The Master of the Microbe è un curioso ibrido letterario, segno di un tempo di transizione. Il novum fantascientifico è il germe della “Purple Pest”, una sorta di influenza spagnola che si diffonde a Parigi dopo un’epidemia che ha devastato la Polonia. La causa è lo scienziato svizzero Krug, revanscista che ha isolato il batterio sviluppando l’antidoto di un “siero” e vuole darne una dimostrazione prima di consegnarlo alle autorità tedesche. Il misterioso gangster Sinistra lo uccide, con l’intenzione di vendere morbo e cura al miglior offerente, ma deve trovare il “cilindro d’argento” contenente il vaccino. Contro di loro c’è un puro altruista che viene casualmente a sapere della minaccia, per poi trovarsi coinvolto attraverso legami familiari. Sullo sfondo della ricerca, l’Europa si va disfacendo fra povertà, minacce di guerra e la presa di potere, in Francia e Germania, di governi socialisti e comunisti. Sono queste le minacce incarnate nell’atarassico collaboratore di Sinistra, esorcizzate nel sentimentalistico finale.

Ma il registro del romanzo – che pure evoca Wells en passant (210) e richiama alla mente tanta SF popolare a cavallo del 1900 (England, Stockton, Griffith negli Usa, Le Queux e le tarde future wars in Gran Bretagna) – è solo in parte fantastico. C’è molto della nascente retorica del giallo, e la figura del potentissimo Sinistra, il cui modello diretto proviene da Gaston Leroux secondo Bleiler (664), assomiglia a Moriarty o Fantômas nelle mire di dominio sul mondo. A tutto questo Service somma un elemento di realismo quasi naturalista nella descrizione dell’underworld parigino, con frequenti inserti di parole francesi (ma anche in tedesco e altre lingue come appunto robot) e soprattutto la presentazione dell’arcana “terra di nessuno” (170) chiamata “la Zona”: “At the gates of the proud city, a crust of appalling misery, a squalid belt of festering humanity, an outlaw region of iniquity and crime – the Zone” (171). Allora, come nel contemporaneo Jack London (pur ideologicamente lontano da Service), il narratore acquisisce il ruolo di protagonista di un Künstlerroman, che si trova a Parigi per scrivere un romanzo chiamato Garbage: A Study of Prostitution e vuole convincere “la folla dei Modernisti” della superiorità dei suoi intenti di “autore realista”: “fiction should be ‘static and morose’; […] it should taboo the Unusual, eliminate the Extraordinary” (9). L’avventura lo coglie però in un perdurante periodo di blocco, e la Zona si rivela un luogo metanarrativo allo stesso tempo inadeguato ed eccessivo rispetto alle aspettative; la conclusione è che “I am now inclined to believe that as far as I am concerned it is only the extraordinary that is usual” (ibid.).

Carl F. Klinck, biografo di Service, dice che questo suo penultimo romanzo, forse scritto in parte a inizio decennio, utilizza sue effettive ricerche sugli slum di Parigi, riprese nel 1948 nell’autobiografico Harper of Heaven (143-44), e rintraccia al suo interno un lessico privato fatto di luoghi frequentati, nomi di personaggi ricorrenti (144-47). Quando, negli anni ’10, si trasferisce per lunghi anni a Parigi operando anche come giornalista (anche corrispondente di guerra) e romanziere, Robert W. Service è una figura destinata a ricevere gli strali della nuova generazione dei Modernisti. A partire da Songs of a Sourdough (1907), Service è un poeta che riceve un successo di massa come bardo della frontiera artica. Nel suo verso tradizionale e in atmosfere spesso fantastiche, la giovane nazione trova uno dei suoi mitografi ufficiali.

Così, questa incursione nella fantascienza (di cui anche il seguente The House of Fear ha alcuni elementi; cfr. Clute) è anche un modo per fare i conti con la discrasia fra popolarità ed esclusione dal canone. Come ricorda David Ketterer, nella prima metà del secolo Service non è l’unico a rivolgersi alla SF: da arbitri del gusto ufficiale quali Charles G.D. Roberts, Arthur Stringer, William Arthur Deacon e Madge Macbeth ad altri autori definibili, a vario titolo, come realisti, quali Alan Sullivan, Stephen Leacock e Robert J.C. Stead. I risultati possono essere deludenti, ma in un’epoca di nazionalismo rampante le loro visioni sono tutt’altro che trionfalistiche. A sua volta, il Modernismo canadese non rifiuterà l’influsso di Wells: anche in questa storica tensione stanno le radici di McLuhan, Atwood e Gibson.

E, nell’archeologia del robot, al Canada spetta almeno un altro precursore, contemporaneo al 1929 di Keller. Il secondo robot della SF è a firma dell’umorista Stephen Leacock, altra figura di popolarità sterminata e duratura, autore di frequenti parodie fantascientifiche. La title-story della raccolta The Iron Man and the Tin Woman, così, presenta la vicenda di due “Robot” (2) umanoidi che si corteggiano secondo una programmazione portata avanti attraverso fonografi a batteria e nastri perforati – e si rivelano agire a nome di due innamorati timorosi del contatto diretto. La levità del tono comico non nasconde che il diffondersi questi “servitori” adombra la fine dell’umano: in Leacock, il robot nasce contemporaneamente alla propria stessa parodia, e il complesso di Frankenstein nasce con un amaro sorriso sulle labbra.

Nelle storie della letteratura canadese, anche recenti, la posizione di Service e Leacock come dignitosi autori minori è assicurata (cfr. New 100-01, 131-34). Che anche la SF riconosca loro questo ruolo.

Una nota conclusiva. In Italia, osserva Etruscus (80), a parte sparse menzioni su rivista negli anni Trenta, è un libro di viaggio negli Stati Uniti, America amara (1940) di Emilio Cecchi, un intellettuale non inviso al regime, a parlare con timore di una condizione rappresentata dal “robot, l’uomo di ferro ed elettricità”. Il complesso italiano di Frankenstein nasce nel nome dell’antiamericanismo fascista. Abbiamo mai avuto un Asimov che ce ne tirasse fuori?

Bibliografia

Bleiler, Everett F. Science-Fiction: The Early Years. Kent, OH: Kent State UP, 1990.

Clute, John. Robert W. Service. In The Encyclopedia of Science Fiction. Ed. John Clute & David Langford. 2012. http://www.sf-encyclopedia.com/entry/service_robert_w. Consultato il 10 aprile 2013.

Etruscus, Lucius. Robot: La nascita scorrevole di una parola. In Robot 64 (2011): 75-81.

Keller, David H. The Psychophonic Nurse. 1928. Tales from Underwood. Sauk City, WI: Arkham House, 1952. 112-29.

Ketterer, David. Canadian Fantasy and Science Fiction. Bloomington: Indiana UP, 1992.

Klinck, Carl F. Robert W. Service: A Biography. Toronto: McGraw-Hill Ryerson, 1976.

Leacock, Stephen. The Iron Man and the Tin Woman. In The Iron Man and the Tin Woman with Other Such Futurities: A Book of Little Sketches of To-Day and To-Morrow. New York: Dodd Mead, 1929. 1-6.

New, W. H. A History of Canadian Literature. London: Macmillan, 1989.

Pergameno, Sandro. I robot. Introduzione a Robotica, a cura di Sandro Pergameno. Milano: Nord, 1980. i-xxi.

Portelli, Alessandro. Il presente come utopia: La narrativa di Isaac Asimov. In Calibano 2 (1978): 138-84.

Service, Robert W. The Master of the Microbe. London: Fisher Unwin, 1926.

Stableford, Brian, & David Langford. Robots. In The Encyclopedia of Science Fiction. Ed. John Clute & David Langford. 2012: http://www.sf-encyclopedia.com/entry/robots. Consultato il 10 aprile 2013.

Steinbeck, John. The Grapes of Wrath. 1939. Harmondsworth: Penguin, 1980.

Suvin, Darko. Le metamorfosi della fantascienza (Metamorphoses of Science Fiction, 1979). Tr. Lia Guerra. Bologna: Il Mulino, 1985.