J.R.R. Tolkien. Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm

J.R.R. Tolkien. Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, a cura di Wu Ming 4. Milano: Bompiani, 2010. pp. 97, Euro 9.

di Fulvio Ferrari

Fulvio Ferrari, docente di Filologia germanica all'Università di Trento, è componente del comitato scientifico di Anarres.

La critica tolkieniana è, in Italia, ancora terreno minato, in cui la lettura spiritualista, esoterica e tradizionalista ha fatto di Tolkien e dei suoi personaggi dei simboli di una rivolta radical-aristocratica contro il mondo moderno. E macerie e ordigni inesplosi sono ancora lì, a rendere difficile aggirarsi con sguardo critico all’interno dell’opera tolkieniana. Lo scontro politico – quello scontro politico – ha lasciato dietro di sé una serie di semplificazioni e di irrigidimenti nefasti, e basta farsi un giro per i blog, seguire qualche thread, per rendersene conto. L’effetto più devastante, a mio parere, è quello di aver fatto di Tolkien – a destra e a sinistra – il Santo protettore della letteratura fantastica e di aver costruito intorno a lui un culto che non ammette riserve, prese di distanza, distinguo. Che non ammette critica, insomma. Ogni tentativo di affrontare criticamente l’opera tolkieniana viene così letto come un atto ottuso, dettato da nostalgia per il realismo socialista e la letteratura di diretto impegno sociale. Poco importa che posizioni del genere, nel dibattito culturale italiano, fossero già marginali negli anni Sessanta. Poco importa che György Lukács – il mostro fanatico del realismo che ogni tanto fa capolino nei blog – fosse un entusiastico ammiratore di E.T.A. Hoffmann. E poco importa, anche, che posizioni critiche su Tolkien (critiche, non ingenerose né irrispettose) siano state espresse da scrittori fantasy quali Michael Moorcock e China Miéville (Non vogliamo qui occuparci di certa critica altezzosa, legata a una anacronistica idea di canone, che nel nome di gerarchie estetiche ovunque consegnate all’oblio – tranne, a volte, che in Italia – identifica il fantastico con il trash culturale. Per chi assume un tale atteggiamento è la natura stessa della letteratura di Tolkien a essere incompatibile con un discorso critico, che si ritiene privilegio della letteratura etichettata come “alta”).

Ora, io credo che sia venuto il momento di rivendicare la possibilità di studiare Tolkien e la sua opera, applicando tutte le possibili chiavi interpretative che la filologia, la narratologia, gli studi culturali, gli studi di genere, la storia della letteratura e quant’altro ci mettono a disposizione. E, naturalmente, che si debba anche rivendicare la possibilità di riscrivere creativamente Tolkien, come da sempre si è fatto con gli autori di grande circolazione e influenza. Tenendo però presente che riscrittura e analisi sono procedure assai diverse, che perseguono fini diversi con mezzi diversi.

E veniamo così al volumetto cui è dedicata questa recensione: un volumetto, vale la pena dirlo subito, di grandissimo interesse proprio per l’intersezione di procedure e di discorsi che in esso ha luogo. Un’intersezione spesso “illegittima”, ma non per questo meno stimolante, e da diversi punti di vista.

Lo scritto che dà il titolo al libro è un “ibrido” tolkieniano, già pubblicato in italiano in Albero e foglia (Bompiani, 2000) nella traduzione di Francesco Saba Sardi. Ibrido in quanto Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm (The Homecoming of Beorhtnoth Beorhthelm’s Son) si compone di tre parti tra loro assai diverse: 1) una introduzione, in cui Tolkien inquadra storicamente la battaglia di Maldon, combattuta nel 991 tra inglesi e un esercito scandinavo; 2) un dialogo drammatico in versi tra due personaggi, il giovane Torhthelm, entusiasta della poesia eroica e figlio di un ‘menestrello’ (son of a minstrel), e Tídwald, anziano e disincantato contadino, entrambi inviati dall’abate di Ely a cercare sul campo della battaglia ormai conclusa il corpo del comandante inglese, Beorhtnoth, per dargli onorevole sepoltura; 3) un saggio in cui Tolkien interpreta il poemetto inglese antico La battaglia di Maldon (di cui la seconda parte costituisce un epilogo) alla luce della discussione del termine anglosassone ofermod, termine di discussa interpretazione, ma che nel poemetto indica chiaramente una qualità del carattere del comandante che lo spinge a lasciare il passo agli invasori e ad accettare così di combattere in condizioni svantaggiose. A questo scritto composito, cui Tolkien mise probabilmente mano già negli anni Trenta, ma che pubblicò in forma definitiva solo nel 1953 sulla rivista Essays and Studies, l’edizione italiana affianca la traduzione della Battaglia di Maldon già pubblicata da Roberto Rosselli del Turco nel 2009 (in quel caso con testo a fronte e ampio commento critico-filologico) per le Edizioni dell’Orso; uno studio critico di Tom Shippey, pubblicato in inglese nel 1991 e in origine presentato come conferenza alla Tolkien Society di Londra, e una prefazione del curatore, Wu Ming 4, che sempre nel 2010 ha pubblicato in L’eroe imperfetto (Bompiani) uno studio dedicato alla Battaglia di Maldon e alle riscritture moderne realizzate da Tolkien e Borges.

La battaglia di Maldon, questo poemetto scritto non si sa quando né da chi per celebrare il sacrificio dei guerrieri inglesi e del loro capo Byrhtnoth (Beorhtnoth nella grafia di Tolkien) caduti nel 991 nel tentativo di fermare a Maldon, nell’Essex, un’incursione scandinava occupa un posto del tutto particolare nella moderna riflessione sull’eroismo. Sia Borges che Tolkien lavorano sul testo anglosassone sottoponendolo a un lavoro interpretativo, entrambi ne forzano il senso piegandolo alla propria visione, ed entrambi sentono quindi l’esigenza di scrivere un epilogo letterario che dia forma al loro modo di intendere il racconto. È interessante che le forzature di Borges e di Tolkien si realizzino in due direzioni diametralmente opposte. Già in una lezione tenuta nel 1966 (e pubblicata in Italia da Einaudi nel volume La biblioteca inglese) Borges presentava l’esercito inglese a Maldon come un’accozzaglia di contadini male equipaggiati e male addestrati, che affrontava senza speranza di vittoria una banda di terribili vichinghi guidati dal grande re norvegese Olaf Tryggvason (e Borges ricorre qui ai soliti luoghi comuni della descrizione dei vichinghi, comprese la sciagurate corna sugli elmi che mai un vichingo si sarebbe sognato di portare in battaglia). Quanto più disperata la situazione degli inglesi, tanto più grande – nella visione di Borges – è il loro eroismo, e questa idea centrale ritorna nel breve racconto 991 A.D., contenuto nella raccolta La moneta di ferro, del 1976: dieci superstiti della battaglia, “uomini dell’aratro e del remo”, si ritrovano ai margini della pineta. Il più vecchio di loro, Aidan, ripercorre i fatti della giornata, commenta la decisione di Byrhtnoth di consentire lo sbarco dei vichinghi e  avanza la supposizione che l’abbia fatto per spaventare gli invasori con la sua fiducia, pronuncia parole di sdegno nei confronti dei vili che sono fuggiti dal campo di battaglia e conclude quindi proponendo che il manipolo dei sopravvissuti preceda i vichinghi al villaggio e cada nell’ultima difesa, poiché “non possiamo sopravvivere al nostro signore”. Prima di concludere il suo discorso, tuttavia, Aidan ordina al figlio Werferth di non seguirli nel combattimento, il suo compito sarà diverso, dovrà assicurare la memoria dell’evento “affinché la giornata di oggi perduri nella memoria degli uomini”.

Borges, quindi, riprende e attualizza la visione tradizionale e vulgata dell’etica germanica: il dovere di dare la vita per il proprio signore, l’onta di sopravvivergli, l’importanza della memoria tramandata nel canto. Ha buone ragioni per farlo, la stessa Battaglia di Maldon gli suggerisce le parole: “L’animo sia tanto più fermo, / il cuore più audace, // il coraggio tanto maggiore, / quanto più diminuiscono le nostre forze. // Qui giace il nostro comandante, / segnato da crudeli ferite, // il nobile signore, nella polvere. / Possa pentirsi in eterno // chi ora pensa di ritirarsi / da questa schermaglia di guerra” recitano i famosi versi 312-316 del poemetto. Che per far questo Borges trasformi i guerrieri di Maldon in contadini male armati è tutt’altra faccenda.

Del tutto diversa, come si diceva, è l’operazione di Tolkien. Per Tolkien tutta l’interpretazione del poemetto deriva dai versi 89-90: “Allora il Conte, / mosso dall’orgoglio, // concesse fin troppo terreno / a quel popolo odioso”. Quell’ofermod  anglosassone (orgoglio, nella traduzione di Rosselli del Turco) è secondo Tolkien overmastering pride e implica una netta condanna di Byrhtnoth da parte del poeta. Da qui, dunque, prende l’avvio la sua lettura anti-eroica della Battaglia di Maldon (e, nel corso dell’argomentazione, anche di Beowulf), lettura che prende poi forma drammatica nel dialogo che costituisce la seconda parte del suo testo. Diciamo subito che l’interpretazione di Tolkien è filologicamente insostenibile, cosa che viene ben messa in rilievo da Shippey (che è sia studioso di Tolkien che di letteratura inglese antica) nel saggio che chiude il volume.

Tuttavia, questa sovra-interpretazione, questa  forzatura di Tolkien che mira a far dire al testo qualcosa che in esso non si trova, è di particolare interesse per ricostruire il suo rapporto con il Medioevo, la sua letteratura e la sua ideologia (anzi, le sue ideologie, usando questo termine nel suo senso più ampio di visioni più o meno consapevoli del mondo). E, di conseguenza, per studiare l’universo letterario di Tolkien che, nel suo complesso, appare la reinvenzione di un Medioevo “altro”. Che Tolkien fosse innamorato del Medioevo, e in particolare del Medioevo germanico, è cosa nota, ma Il ritorno di Beorhtnoth mette in evidenza la complessità di questo amore, amore per qualcosa che si vorrebbe ci fosse, ma che non c’è. Reinterpretando in chiave anti-eroica La battaglia di Maldon, Tolkien sposta all’indietro, nel passato, la critica alla concezione eroica della tradizione germanica, e compie così  una evidente mossa anacronistica. L’eroismo puro, non finalizzato alla gloria, non motivato dal desiderio di entrare nei canti che Tolkien vagheggia nel suo saggio non ha posto nella letteratura epica del Medioevo germanico. Naturalmente un eroismo del genere esisteva, ma il suo posto era nell’agiografia, proprio quel genere letterario che Tolkien non intende utilizzare, nella sua opera creativa, per non rendere trasparente e invadente un messaggio religioso cristiano che doveva invece insinuarsi tra le pieghe della narrazione. Per quanto Shippey – da buon filologo – corregga l’interpretazione di Tolkien, mentre Wu Ming 4 sembra accettarla senza sollevare obiezioni, su questo punto convergono sia la prefazione di Wu Ming 4 sia il saggio di Shippey:  l’importanza della rilettura della Battaglia di Maldon operata da Tolkien non sta nel contributo fornito agli studi di letteratura anglosassone, ma nella lotta corpo a corpo dello scrittore inglese moderno con il mondo germanico antico, che lo affascina e lo respinge al contempo. E, soprattutto, con il concetto germanico di eroismo, con l’esaltazione dell’atto estremo destinato alla gloria. Rispetto a questo eroismo Tolkien si pone in opposizione netta.

C’è tuttavia anche un altro eroismo nel componimento anglosassone, quello dei guerrieri fedeli al loro signore fino alla morte, che non ne mettono in discussione le decisioni, ma ubbidiscono per amore e per dovere: questo eroismo a Tolkien piace, anzi, secondo lui viene messo in ancora maggiore rilievo dalla sventurata decisione di Byrhtnoth.

Nel saggio pubblicato in L’eroe imperfetto, Wu Ming 4 deduce dalla critica di Tolkien allo “smisurato orgoglio” di Byrhtnoth un’autorizzazione alla messa in discussione del mondo feudale e individua un “punto di fuga dal campo di battaglia”. Messa in discussione del mondo feudale e individuazione di un punto di fuga del campo di battaglia sono mosse, a mio parere, del tutto condivisibili, a patto di non leggerle nell’argomentazione di Tolkien. Proprio nella – a buona ragione – citatissima lettera del 1941 in cui esprime il suo risentimento personale nei confronti di Hitler che sta “pervertendo, distruggendo e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che ho sempre amato, e cercato di rappresentare in una giusta luce”, Tolkien osserva: “nei tedeschi noi abbiamo dei nemici le cui virtù (e sono virtù) di obbedienza e patriottismo superano le nostre, nella massa”.

Per costruire il suo mondo letterario, Tolkien riprende in certa misura la strategia già messa in atto dall’autore di Beowulf: la creazione di un mondo che ha e non ha a che fare con la storia, in cui il Dio cristiano agisce, ma senza essere conosciuto e nominato dai personaggi. Un mondo in cui naturale e soprannaturale si incontrano e interagiscono. Un mondo, anche, complesso e pervaso da contraddizioni, ma in cui la visione dell’autore, della sua comunità culturale, prende forma e vita. È quanto meno assai probabile – a giudicare dalle testimonianze medievali – che Beowulf  non abbia avuto all’epoca grande circolazione, e certo non lo conosceva Olaf Tryggvason, ma negli ultimi due secoli questo poema arcaico, lontanissimo per tanti versi dal nostro sentire e dal nostro pensare, è stato pubblicato, tradotto, riscritto infinite volte. Tra gli altri, Tolkien ha ripreso Beowulf come La battaglia di Maldon, l’Edda, il Kalevala, le saghe nordiche e tante, tante altre narrazioni medievali, le ha reinterpretate, le ha riscritte, ne ha tratto un mondo letterario che utilizza il materiale antico, riorganizzandolo però secondo la visione del mondo dell’autore moderno. Questo mondo letterario, a sua volta, ha avuto nell’ultimo mezzo secolo enorme circolazione. Gli scrittori, naturalmente, hanno il diritto di appropriarsene, di questo come di ogni altro mondo letterario, e rifarlo a loro piacere. Così ha fatto l’autore di Beowulf, così hanno fatto Tolkien, Borges e lo stesso Wu Ming 4 con il suo epilogo alla Battaglia di Maldon pubblicato in conclusione del saggio su L’eroe imperfetto.

In quanto lettori ne traiamo piacere, stimoli, spunti di riflessione. In quanto studiosi abbiamo il dovere di esaminare questi universi letterari (primi, secondi, terzi...), di comprenderne la costruzione e di riconoscerne la relazione con le letture del mondo “reale” che li sostanziano. In quanto critici abbiamo il diritto e forse anche il dovere di metterli in discussione e di farne terreno di confronto tra diversi modi di interpretare il mondo e diversi progetti per cambiarlo.