Valerio Massimo De Angelis e Umberto Rossi, a cura di. Trasmigrazioni: I mondi di Philip K. Dick

Valerio Massimo De Angelis e Umberto Rossi, a cura di. Trasmigrazioni: I mondi di Philip K. Dick. Firenze, Le Monnier, 2006. pp. 288, Euro 21,50

di Antonino Fazio

Antonino Fazio vive e lavora a Torino. Nel campo della fantascienza, è autore di racconti e saggi comparsi su varie pubblicazioni, fra cui Futuro Europa, Nova, Robot e Urania, e di un'antologia personale, CyClone (Perseo 2005). Con Riccardo Valla ha curato una raccolta di saggi su Cornell Woolrich (La morte ha mille occhi, Elara 2010).

Il libro raccoglie gli interventi presentati al convegno internazionale P2KD — Philip K. Dick at the Millennium: New Critical Perspectives, tenuto presso l'Università degli Studi di Macerata, 5-7 ottobre del 2000. L'operazione editoriale è tanto più meritoria in quanto la raccolta degli atti del successivo convegno, Il simulacro Philip K. Dick, tenuto a Torino nel 2003, da cui proviene l’intervento di Suvin, non vedrà mai la luce.

Un appunto preliminare va fatto a proposito della scelta, a mio avviso discutibile, di citare sempre i testi e i brani di Dick con i titoli italiani e con le traduzioni delle edizioni più recenti, anziché con i titoli più noti e, talvolta, più felici, o con quelli originali, e ricorrendo, quando necessario all’argomentazione, a un'apposita traduzione, magari confrontata con l'originale.

I saggi sono raccolti in tre sezioni: "L'universo di Philip K. Dick", "Riletture" e "Dick al cinema". Questo inquadramento conferisce al volume una struttura unitaria che l'insieme dei singoli saggi non garantirebbe, trattandosi di contributi abbastanza diversi tra loro, la qual cosa non è da intendersi come un difetto, ma come una ricchezza di stili e prospettive.

L'introduzione di Carlo Pagetti (Philip K. Dick, la critica e il gubble di Manfred Steiner), densa e puntuale, ci ricorda come l'interesse per Dick sia nato in Europa prima ancora che negli Usa, sottolinea la pertinenza di un convegno su Dick in Italia, e al tempo stesso ci mette in guardia contro il rischio di una canonizzazione che affonderebbe l'opera nel pantano dell'agiografia. Lucido e brillante, Pagetti traccia e commenta in poche pagine una sintesi chiara della critica su Dick, senza mostrare remore nell'accostare Dick a van Vogt e, al tempo stesso, a Shakespeare. Nelle sue parole, Dick è "soprattutto un narratore di prim'ordine, che tenta continuamente di ridefinire gli strumenti che ha a sua disposizione".

Nella parte iniziale del volume, si va dal saggio strutturalista di Fredric Jameson, che apre la sezione, alla lettura "politica" di Darko Suvin, che la chiude. Ma queste interpretazioni “laiche” hanno molto in comune.

Il saggio di Jameson (Storia e salvezza in Philip K. Dick) è un tentativo di enucleare e mettere insieme, correlandoli attraverso il rettangolo semiotico di Greimas, alcuni nodi semantici o temi narrativi (chiamati "clusters tematici" o "complessi semici"). Jameson raggruppa le principali opere di Dick in tre cicli: i romanzi mainstream degli anni '50, i romanzi fantascientifici degli anni '60, i romanzi a tema religioso degli anni '70 (grosso modo). Decide poi di analizzare i romanzi di ciascun ciclo come se fossero varianti di una singola opera, estraendone i nuclei tematici significativi.

Schematizzando, possiamo dire che Jameson ritrova due contrapposizioni fondamentali in Dick: quella tra empatia e terapia, e quella tra nostalgia e utopia. Il saggio è molto complesso, e la sua lettura viene complicata ulteriormente dal fatto che, nel terzo dei quattro grafici presenti nel testo, i termini "Terapia" e "Nostalgia" risultano invertiti, rispetto alla posizione che hanno altrove (cosa che mi ha fatto sospettare uno scambio tipografico). La tesi centrale di Jameson consiste nell'idea che la nostalgia del passato, così ricorrente in Dick, non sia un desiderio di tornare indietro nella storia ma piuttosto una "nostalgia del presente", un tentativo di ridare linfa a un'attualità impoverita e degradata.

Nel suo Arrivederci e salve: Differenziazioni nell’ultimo Philip K. Dick (a mio avviso il migliore contributo della sezione e, forse, dell'intera raccolta) Suvin scava all'interno delle opere dell'ultimo Dick (cioè A Scanner Darkly, la "Trilogia di Valis" e Radio Free Albemuth) per rinvenire, nei nodi delle trame, i messaggi di salvezza (va da sé che, trattandosi di Suvin, il termine è da intendersi in senso politico e non teologico) che lo scrittore californiano vi ha inserito. Lo scritto di Suvin, pur nella sua struttura apparentemente lineare, raggiunge un notevole livello di complessità ed interesse, per via della particolare abilità mostrata nel mescolare il punto di vista personale con il punto di vista dello studioso, una capacità che gli permette di "essere dentro" al suo testo, senza cadere nel soggettivismo. Particolarmente interessanti alcune corrispondenze con il saggio di Jameson, in particolare la scelta di utilizzare una qualche griglia concettuale ben definita: la semiotica per Jameson (il rettangolo di Greimas) e la teoria dell'informazione per Suvin (la distinzione tra segnale e rumore).

Suvin ricollega esplicitamente il suo intervento al contributo scritto per il numero speciale di Science-Fiction Studies del 1975 dedicato a Dick, e commenta :"vent'anni dopo [la sua morte] noi siamo vivi, in un'epoca probabilmente peggiore di quel che lui temeva allora." L'analisi di Suvin punta a individuare, nel testo dickiano, gli elementi significativi (segnale), presenti in mezzo al "rumore" prodotto dal canale, i quali forniscono informazioni relative al "Mondo possibile Zero comune ad autore e lettori". Tuttavia, anche il rumore di fondo fornisce informazioni, che sono autoreferenziali (relative al canale) ma riguardano anche la fonte, vale a dire un sottoinsieme dello stesso "Mondo Possibile Zero". Tale sottoinsieme è "la coscienza psicofisica dell'autore quale è rifratta attraverso le convenzioni della scrittura". Nel caso specifico, "è la situazione esistenziale di Dick come egli l'ha concepita al momento della scrittura, e (questo pare importante) attraverso o in effetti parzialmente a causa della scrittura".

Questo allargamento teorico del concetto di "rumore" permette a Suvin di ipotizzare che negli autori validi (come Dick) la comprensione che essi hanno della propria situazione possa essere estesa "alla situazione di chiunque altro". Nelle parole di Suvin: "Nella narrativa, il canale è intessuto in modo ancor più intimo con il messaggio o significato di quanto non sia nella teoria dell'informazione, poiché codetermina, se non la fonte, quantomeno la nostra comprensione di essa". È evidente che Suvin va alla ricerca di passaggi nella trama rilevanti a livello politico (una propensione che lo accomuna ad altri autori presenti nel volume, come Jameson, Gallo e Proietti). Ciò implica l'idea che la fantascienza tragga valore dal fatto di essere non solo una rappresentazione allegorica della realtà, il "Mondo possibile Zero", ma anche un'analisi di tale Mondo. Il Dick di Suvin è dunque molto diverso dallo pseudo-visionario religioso presentato, ad esempio, nella biografia di Emmanuel Carrère.

Nella prima sezione sono presenti anche contributi di Carlo Formenti (sulla pseudo-teologia di Dick), Grace L. Dillon, Anna Lazzari, Tony Wolk e Antonio Gnocchini. L'intervento di Gnocchini (Los Angeles: Un’opera di Philip K. Dick) – che legge Los Angeles come se fosse l'ambientazione per una tipica fiction dickiana – per quanto interessante, sembra tuttavia ispirarsi più al mito – o forse allo stereotipo? – legato alla Los Angeles cinematografica di Blade Runner, che ai paesaggi suburbani descritti da Dick.

Secondo Lazzari (I testi non finzionali: Dick sulla fantascienza), che esamina le sue teorie sulla fantascienza e sulla realtà, Dick si interroga sulla natura della fantascienza, sul suo rapporto con la scienza, sul ruolo del genere e dell’autore SF “all’interno del sistema letterario”. In Dick, espressa in forma talvolta frammentaria, talvolta più compiuta, c'è una persistente valorizzazione delle potenzialità conoscitive e letterarie della SF, una convinzione che, insieme all’autoironia, non viene mai abbandonata.

Il saggio di Wolk (La danza delle tartarughe: Il gioco degli androidi nella narrativa di Philip K. Dick) è un'indagine sulle fonti scientifiche usate da Dick per la creazione dei suoi personaggi "sintetici": robot e androidi – di fatto un raro esercizio di filologia dickiana, un'analisi parallela degli scenari teorico-speculativi dei pionieri dell’intelligenza artificiale e di alcune figure di androidi (comunque etichettati) in Dick.

Dillon (L’impulso divinatorio di Philip K. Dick: Il ragno e l’ape) analizza la narrativa dickiana nei termini di una poesia profetica, seguendo le immagini di api e ragni, presenti in tanta poesia – romantica ma non solo – come analoghi dell’impulso poetico nei due sensi, rispettivamente, della creatività e dell’inganno. Il "dilemma dell’artista/profeta", che si presenta come  "ospite ispirato di visioni future", ma è al tempo stesso sedotto dal "lato oscuro della forza dell'immaginazione creativa", come tanti tessitori di trame predatorie, è alla fine (p.es. in Albemuth) apparentemente risolto a favore dell’ape, dell’empatia e del mutamento risanatore.

Il saggio di Formenti (La Gnosi in Philip K. Dick) ricostruisce le teorie teologiche di Dick, rivendicandone la lucidità speculativa, a dispetto della loro apparente matrice psicopatologica o allucinatoria. Formenti condivide con altri autori presenti nel volume (Frasca e Prezzavento, inseriti nella sezione successiva) l'interesse per la complessa, sincretica e talora contraddittoria rielaborazione compiuta da Dick su una sterminata quantità di testi filosofico-religiosi macinati dalla sua vorace e insaziabile lettura. Il saggio di Paolo Prezzavento (Allegoricus interpres semper delirat: Un oscuro scrutare tra teologia e paranoia) tenta una lettura "paranoica" di un testo che è paranoico di suo, cioè A Scanner Darkly, in un'articolata analisi delle complesse interconnessioni fra droga, paranoia e teologia. L'erudito intervento di Gabriele Frasca su The Transmigration of Timothy Archer (Come rimanere rimasti: La trasmigrazione di Timothy Archer) chiude la lunga sezione centrale – a proposito, mi verrebbe da dire – trattandosi appunto dell'ultimo romanzo di Dick. Quasi un lascito testamentario, sostiene Frasca, argomentando che di fatto è un consiglio, anzi un'esortazione, che Dick indirizza ai suoi lettori (ma, probabilmente, anche a se stesso), affidandola alla voce disincantata di Angel Archer. Si tratta dell'esortazione a "rimanere svegli", presenti a se stessi: in una parola "vivi". Questi tre testi, di per sé interessanti, testimoniano forse di come un'indagine del versante "teologico" di Dick, se analizzato in modo isolato, rischi di essere riduttiva, o comunque parziale.

In una prospettiva più vicina a quella di Suvin e Jameson, il saggio di Salvatore Proietti (Vuoti di potere e resistenza umana: Dick, Ubik e l’epica americana) è un'analisi ad ampio raggio, che avrebbe forse potuto essere inserita nella prima sezione. Proietti prende le mosse da Ubik per elaborare acutamente una tesi nella quale il testo dickiano, nel contesto dell’evoluzione della SF statunitense, è parte di quelle "riscritture dissenzienti in cui il cyborg è un corpo che rende priva di senso ogni divisione fra soggettività autosufficiente e strumentalità esterna". In questo senso, "la regressione temporale in Ubik [...] non è il risultato dell'azione del malefico Jory Miller, ma è invece il segno della sua fallibilità". Per questo motivo, la regressione non è meccanicistica, bensì storica (il televisore non si riduce "a un ammasso di plastica e metallo", ma diventa una radio d'epoca). Così Joe Chip, prototipo dell'uomo comune, scopre di potersi opporre a forze che sembravano irresistibili e quasi divine: "contro il male, il capitale e l'entropia, l'universo rimane aperto". Nell'analisi di Proietti, è la dimensione intessuta dalle relazioni interpersonali a opporsi sia all'impersonale (l'inumano) sia all'omologazione forzata ("Il mondo di Jory è perfetto, ma coincide con il suo demiurgo").

Proprio all'inizio della sezione centrale (dove il focus è sulle singole opere) troviamo l'intervento di Domenico Gallo (La lotteria del sistema solare) sul primo romanzo SF di Dick, Solar Lottery (Lotteria dello spazio, tradotto anche come Il disco di fiamma); Gallo vi ritrova l'impostazione tipicamente dickiana di critica libertaria alla società americana del dopoguerra: "Proprio sulla crescente importanza della pubblicità e sul conseguente totalitarismo mediatico, sulla progressiva riduzione delle libertà personali, sul ritorno della teocrazia, la fantascienza ha scritto le sue pagine più belle" (Gallo, ovviamente, non sta parlando dell'Italia di oggi, ma dell'America degli anni '50!).

Alessandro Portelli e Maurizio Nati si occupano di altri due fra i primi romanzi di Dick, rispettivamente La città sostituita (A Glass of Darkness, noto anche come The Cosmic Puppets) e Occhio nel cielo. L'analisi di Portelli (Da che parte stai? Il conflitto cosmico in La città sostituita) si sofferma soprattutto sul topos del luogo inaccessibile (in questo caso la regione economicamente depressa dei monti Appalachi, utilizzati anche da altri scrittori realisti e non solo), inteso come il luogo dove un'altra realtà può manifestarsi. Partendo da un preciso rimando a Poe, Portelli individua in questo luogo geografico della storia e della memoria un nodo in cui (come si vede nel romanzo di Dick) il reale risulta indissolubilmente intrecciato al tempo, e a componenti immaginarie espresse da istanze culturali e mitologiche.

Da parte sua, Maurizio Nati (Paura del diverso: Fobie d’oltreoceano in Occhio nel cielo) legge Eye in the Sky come una messa in scena di una galleria delle fobie paranoiche e delle angosce nevrotiche della middle class americana del secondo dopoguerra.

The Gameplayers of Titan viene preso in considerazione da Umberto Rossi (Il gioco del ratto: Avvisaglie avantpop in I giocatori di Titano), il quale individua in Dick un brillante creatore di giochi narrativi, che nulla hanno da invidiare agli attuali rappresentanti del postmoderno e dell'avantpop (una categoria, quest'ultima, dai confini forse un po' incerti). Rossi contesta apertamente (e non senza ragione, secondo me) la tradizionale suddivisione delle opere di Dick in "maggiori" e "minori", in favore di una lettura "complessiva" definita come "una prospettiva di rete".

Nel suo notevole contributo, un "fulcro" situato esattamente a metà volume, Valerio Massimo De Angelis (Storiografie multiple in L’uomo nell’alto castello) affronta uno dei romanzi chiave di Dick, quel The Man in the High Castle (meglio noto in italiano con il titolo La svastica sul sole, poco letterale, ma più efficace e ormai affermato) che affronta la questione dell'intreccio, inesplicabile e labirintico, tra realtà e storia, o meglio storiografia, vale a dire tra il reale e la sua narrazione – una questione che mi sembra venga qui meglio affrontata di quanto non riesca a fare, nei confronti di Dick, molta critica postmoderna.

Mattia Carratello (Piccole città, piccoli uomini e un futuro possibile: I romanzi mainstream di Philip K. Dick) sceglie di occuparsi dei romanzi non appartenenti al genere SF, per sostenere la tesi che in definitiva non sono diversi dagli altri: sono tutti postapocalittici, e l'apocalisse è la Seconda Guerra Mondiale, una catastrofe che "distorce quel continuum che è l'America degli anni Cinquanta". Il suo intervento si può collegare, a livello tematico, a quello di Luca Briasco (“Early in the Bright Sun-Yellowed Morning”: Cronache del dopobomba tra mainstream e genere), il quale individua in Dr. Bloodmoney, romanzo esplicitamente post-apocalittico, come emblematico del fatto che tutti i romanzi di Dick sono, in qualche modo, post-apocalittici. Solo che, in essi, l'apocalisse è "sempre già avvenuta". Questo annullamento della distanza tra il Dick mainstream e il Dick fantascientifico potrebbe portarsi dietro una coda di ambiguità: se il secondo dovesse dissolversi nel primo, sarebbe un'alternativa ben poco interessante.

Una corrispondenza ancora più precisa, non solo nel titolo (col suo richiamo al "gioco del ratto") ma a livello concettuale, è rinvenibile tra il saggio di Rossi e quello di Adriano Barone (Il sognatore d’armi: Il labirinto come gioco (del ratto)), il quale si sofferma su The Zap Gun, svelandone l'intento affettuosamente parodistico delle convenzioni della SF avventurosa degli anni Trenta, ma sottolineando al tempo stesso la sua aderenza ai moduli narrativi tipici dei romanzi di Dick, in cui la trama si svolge come un gioco dalla struttura labirintica.

Francesca Rispoli (Scorrete lacrime, disse il poliziotto: La nascita di un essere umano autentico) trova, in una lettura sostanzialmente letterale di Flow My Tears, the Policeman Said, la descrizione di un mondo distopico, uno stato di polizia retto da regole rigide e dispotiche, un mondo dove, se non si è emarginati, si è alienati. Il messaggio di speranza di Dick passa attraverso la consapevolezza che è la sofferenza a poterci restituire l'umanità, perché si può soffrire solo se si ama.

Il saggio di Nicoletta Vallorani (Con gli occhi di un bambino: Lo sguardo di Manfred su una società utopica) è un'intensa e interessante lettura di Noi marziani in termini di capovolgimento tra follia e normalità. Se la realtà è psicotica, lo sguardo di un folle vedrà meglio, e più lontano, di quello dei normali. L'intervento di Vallorani presenta qualche collegamento con quelli di Lazzari, Dillon e Wolk nell’esplorazione di tematiche attinenti l'identità e la psicologia, sia pure esaminate in contesti diversi: la follia, la realtà, l'arte, la scienza. Considerata la centralità in Dick di tali tematiche, non sfuggirà l'importanza di questo gruppo di saggi.

Nella terza e ultima sezione, Peter Fitting (Il mondo che sta dietro tutto questo: L’eredità di Philip K. Dick) esamina il modo in cui alcuni recenti film si sono occupati della questione delle realtà fittizie, tema centrale in Dick. I film esaminati sono Dark City, Matrix, Truman Show e Pleasantville, nessuno dei quali è tratto direttamente da Dick. Ma naturalmente il collegamento esiste, e consiste precisamente nel riemergere, giusto al passaggio del millennio, di quegli interrogativi sulla "realtà della realtà" che Dick si era già posto per primo alla metà del secolo scorso.

Il saggio di Franco La Polla (Da Philip K. Dick a Hollywood: ovvero, la quadratura del cerchio), che chiude degnamente il volume, si occupa, nello specifico, di due tra i film tratti esplicitamente da Dick, Screamers e Atto di forza, ma la tesi (convincente) è che l'immaginario dickiano sia all'opera nel cinema contemporaneo in misura ben maggiore di quanto appaia dal semplice elenco delle pellicole tratte dalla sua opera e apparse finora (oltre a Blade Runner, si possono citare i successivi Paycheck, Minority Report, e A Scanner Darkly): a qualche anno di distanza, pensiamo anche a un film come Inception.

Per tirare un po' le fila del discorso, mi sembra di poter dire che il volume è attraversato da tre principali linee-guida di critica, che non corrispondono alle tre sezioni in cui i saggi sono suddivisi, ma rappresentano piuttosto tre approcci complementari ai vari discorsi esplorati nel testo dickiano, quello relativo alla politica, quello relativo alla teologia, e quello che intreccia in un unico complesso filone tutta una serie di altri temi: la natura della realtà, la definizione di ciò che è umano, l'intelligenza artificiale, la degenerazione entropica, l'identità, la psicosi, le relazioni sociali, il potere.

A mio avviso, l'insieme di queste tre linee di critica costituisce una tappa abbastanza importante nell'analisi dell'opera di Dick. Parte dell'interesse del volume nasce anche dal confronto fra diverse prospettive di lettura offerte da autori differenti su uno stesso testo, ad esempio The Transmigration of Timothy Archer e la Trilogia di Valis (trattati da Suvin, Formenti e Frasca), o A Scanner Darkly, affrontato da Suvin e da Prezzavento con modalità antitetiche, giacché il primo mantiene separate (come del resto fa Formenti) due questioni che il secondo considera inestricabilmente mescolate, vale a dire la psicosi e la capacità analitica.

Un altro esempio è quello di Martian Time-Slip, trattato specificatamente da Vallorani, ma ripreso anche nella chiusura del testo di Pagetti (non a caso, nel titolo di entrambi i saggi compare il nome di Manfred), che paragona ironicamente "il borbottio apparentemente indistinto della fantascienza" al farfugliamento (gubble) del bambino autistico. Se per Vallorani Manfred "vede oltre", per Pagetti Manfred, come la fantascienza (e in particolare quella di Dick), "dice oltre".

Forse una delle cose più interessanti del libro è proprio questo involontario, o comunque non programmatico, gioco di rimandi incrociati tra i vari interventi dei diversi studiosi, che sembra suggerire la presenza di un filo rosso invisibile, che collega in una sorta di rete la complessa materia letteraria che il Convegno di Macerata ha prodotto in relazione all'argomento che vi si è dibattuto: lo spostamento in avanti delle prospettive critiche su Dick.

In conclusione, Trasmigrazioni ha il duplice merito di restituirci buona parte della complessità di Dick uomo e scrittore (benché in alcuni saggi ci si preoccupi poco di evidenziare il contesto storico-letterario in cui le sue opere si inseriscono), e di far giustizia della diffusa diceria, secondo la quale "si parla troppo di Dick". Non è chiaro se, con questa espressione, si intenda affermare che si parla a vanvera, o che si dia troppa importanza a uno scrittore che non la meriterebbe. In entrambi i casi, si tratta di una diceria priva di fondamento ("priva di sostanza", direbbe lo stesso Dick). Se poi si intende che bisognerebbe parlare anche "degli altri", potrei anche essere d'accordo, ma non è certo ignorando Dick che si potrà risolvere il problema.