In questo e negli altri romanzi, ciò che conta è il dettaglio del mondo, più delle trame di cappa e spada tutt’altro che originalissime, con personaggi stereotipati (soprattutto nei ruoli sessuali) e più di qualche punta di razzismo. La lussureggiante vegetazione e le specie animali, senzienti o meno, sono descritte con una accumulazione di minimi particolari; quello di Burroughs è uno stile basato sul sovraccarico visivo. Al pubblico degli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale, l’autore di Tarzan (seguendo in questo la lezione di altri scrittori “popolari” suoi contemporanei, da Merritt a Lovecraft, da Howard a Clark Ashton Smith, a cui è per altri versi inferiore) offre un equivalente verbale degli effetti speciali visivi di cui noi siamo abituati a fruire al cinema e in TV.
Se Wells rende concepibile Marte, Burroughs lo rende visibile. Nella sua abilità di fare del paesaggio naturale e (xeno-)etnografico l’elemento centrale delle sue narrazioni, sta la chiave del suo artigianato. Non è poco.
Dai muschi giallastri su cui John Carter si risveglia, alle creature superiori con cui si incontra/scontra quasi subito, Burroughs costruisce, un pezzo alla volta, un intero ecosistema, caotico, ridondante, eccessivo, senza troppe preoccupazioni di coerenza scientifica: quello che conta sono i colori, la diversità, la molteplicità: gli uccelli giganti malagor, gli erbivori thoat (con otto zampe, a volte domestici, a volte no) e zitidar e gli enormi apt. Il principio di accumulazione viene letteralizzato nel moltiplicarsi del numero degli arti: dai bianchi e scimmieschi quadrumani nemici naturali della specie verde ai calot simili a cani o ai banth simili a leoni, entrambi con dieci zampe. Altrettanto multiforme è la tecnologia dei Marziani, esemplificata soprattutto negli armamenti, che comprendono sia armi da taglio (lance, spade, coltelli) sia sofisticatissimi fucili a raggi, e altrove si parlerà anche di vascelli spaziali: i Barsoomiani rossi stanno in parte ricostruendo l’antichissima civiltà crollata millenni prima, col prosciugarsi dei mari. Un po’ africano, un po’ arabo, un po’ asiatico (soprattutto indiano), il Barsoom è pieno di religioni, organizzate in complicati pantheon politeisti, a volte truffaldine, come il falso dio Issus sconfitto in The Gods of Mars.
Al posto della coerenza storica o antropologica, abbiamo la praticità di un repertorio sempre al servizio dell’avventura — un’avventura che ricapitola tutte le precedenti forme del romanzo d’intrattenimento. In fondo, con la loro eccezionale longevità, i Marziani sono allo stesso tempo antichissimi e ipermoderni, che giustificano gli anacronismi che li circondano.
Per Carter, i problemi di comunicazione linguistica sono risolti facendo ricorso alla telepatia. D’altra parte, dice Burroughs, i Barsoomiani sono gente di poche parole; non c’è necessità di costruirli come individui: sono maschere, che aggiornano figure tipiche esplorate nel western e nell’esotico coloniale orientaleggiante, e i loro tratti saranno ancora sfruttati in tante opere ambientate su Venere o su Giove, al centro della Terra o in Africa. Difficile in effetti attribuire il ciclo di Barsoom alla SF pura, e quando The Master Mind of Mars (pubblicato in Amazing Stories Annual nell’estate 1927) prova ad accentuare questo elemento, enfatizza gli occasionali momenti di technobabble (fatto di “motori al radio”, “interruttori magnetici” e di “ottavo” e “nono raggio” di energia solare) che non aggiungono molto alla storia. Ma al repertorio marziano Burroughs continuerà sempre a tornare (forse anche stimolato dalla rivalità con imitatori come Kline), con lo stesso protagonista e altri (come il figlio Carthoris, protagonista in Thuvia, Maid of Mars): nel 1940, Llana of Gathol annuncerà la presenza di regioni di Barsoom inesplorate da Carter, e nuove avventure seguiranno, e lo accompagneranno fin quasi alla morte, avvenuta nel 1950.
Ecco la sequenza completa dei libri Barsoomiani di Burroughs (la prima data è quella della pubblicazione su rivista): Under the Moons of Mars (1912 – A Princess of Mars, 1917); The Gods of Mars (1912 – 1918); The Warlord of Mars (1913-14 – 1919); Thuvia, Maid of Mars (1916 – 1920); The Chessmen of Mars (1922); The Master Mind of Mars (1928); A Fighting Man of Mars (1931); Swords of Mars (1936); Synthetic Men of Mars (1940); Llana of Gathol (1941 – 1948); John Carter of Mars (1941-43 – 1964), quest’ultimo in parte basato su un racconto juvenile scritto insieme al figlio John Coleman Burroughs. Burroughs nasce nel 1875, riceve un’educazione militare, ed entra brevemente in Cavalleria. Ma la sua mitologia è quella di un uomo che le prova tutte, prima di diventare scrittore: quando la sua carriera inizia, faceva il rappresentante di temperamatite. Per tutta la vita, Burroughs sarà un grande venditore di sé stesso, a partire da un’oculata amministrazione del suo successo, creando dal 1931 una sua casa editrice con sede nella cittadina californiana ribattezzata Tarzana. Ancora più importante, Burroughs è il primo a scoprire le potenzialità degli altri media, cedendo remunerativi diritti a cinema, televisione e fumetti.
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