Ma se questi sono gli scenari che si aprono a un dopo-catastrofe nucleare, siamo legittimati

a pensare che l’unico modo per garantire la perpetuazione della nostra civiltà su questo pianeta sarebbe eliminare dalla radice gli impulsi aggressivi. La violenza nasce nella testa e si compie attraverso gli arti. E allora la luminosa cometa di Bernard Wolfe che ha solcato solo una volta i cieli della fantascienza si spinge a ipotizzare nel suo capolavoro del 1952 (Limbo, pubblicato il Italia dalla Nord dopo un'attesa durata 44 anni...) una duplice possibile soluzione al problema: ritiratosi con la sua famiglia su un’isola dell’Oceano Indiano per sottrarsi alle conseguenze di un attacco nucleare, il dottor Martine sperimenta lobotomie sugli indigeni ispirandosi alla pratica primitiva del Mandunga; quando torna al suo mondo, dopo 18 anni di isolamento, trova un Nordamerica semidevastato e schiacciato sotto il tallone dell’Immob: un regime che ha istituzionalizzato l’amputazione nella convinzione che l’automutilazione possa prevenire ogni forma di violenza.Nelle note e avvertenze dell’autore riportate in coda al romanzo si legge: “Nei secoli gli uomini hanno inventato i modi più ingegnosi per sfigurarsi, o per lo meno procurarsi situazioni di disagio: rimpicciolirsi i piedi, allungare le labbra a dismisura mediante piattini, forarsi narici e guance e orecchie, limarsi i denti, coprirsi la testa di fasce per trasformare la testa in una piramide, circoncidersi, castrarsi per diventare coristi o eunuchi da harem, tagliarsi le dita delle mani e dei piedi e strapparsi i capelli in rituali di dolore, marchiare e tatuare la pelle, schiacciarsi l’addome con corsetti, rimpinzarsi fino a rimbecillire, diventare macilenti e totalmente coperti di peluria restando appollaiati su una colonna, avvelenarsi con nicotina e alcol e altre droghe, mettersi il cilicio, vestirsi di sacco e cospargersi il capo di cenere. Le Amazzoni, decise a lanciarsi nella pratica dell’autolacerazione (uguali diritti per tutti!), si tagliavano il seno destro per fare posto all’arco. Un continuo interminabile martoriare il corpo. Non occorre scavare negli archivi militari per scoprire che l’uomo, qualunque altra cosa possa essere, è senza dubbio l’animale che si mutila da sé. In un certo senso, un amp volontario”.
Un alone di reverenza avvolge chi abbraccia questa pratica (gli amp-vol suddetti, gli unici a potere aspirare a posizioni di comando e responsabilità) e il grado di considerazione di cui uno gode è tanto maggiore quanto più alto è il numero degli arti cui ha rinunciato in favore di protesi meccaniche: uni-amp, bi-amp, tri-amp e quadri-amp descrivono la gerarchia sociale del futuro. Una corrente di pensiero minoritaria propugna addirittura la necessità di rinunciare agli arti meccanici e di ricorrere alla castrazione onde ridurre a zero le possibilità d’interferenza “fisica” con il resto del mondo. L’unico problema è che costoro, che vivono segregati in ceste di vimini, necessitano di donne che si prendano cura di loro, accudendoli e pulendoli come bambini in fasce. Potrebbe sembrare un paradosso, ma è la grottesca realtà che Martine trova ad attenderlo. E il suo orrore esploderà alla scoperta che a fornire alla nuova, crudele società del dopobomba l’ispirazione per l’Immob è stato proprio un suo quaderno d’appunti, smarrito molti anni prima. Ma l’orrore è forse meno insostenibile se serve a garantire una qualche speranza al genere umano…

Tutto risolto, insomma, malgrado il disagio per essere l’inconsapevole ispiratore della prassi? Nemmeno per sogno… Malgrado la raffinata prevenzione dell’Immob, una nuova guerra si profila infatti all’orizzonte, e questa potrebbe essere davvero quella giusta. “Mandunji e Immob” scrive nella sua postfazione al libro Vittorio Curtoni (esperto anche lui di catastrofi, come dimostra il suo Dove stiamo volando, storia del dopobomba con mutanti), “i due apici di concezioni opposte dell’esistenza, finiscono con l’identificarsi nel rullo compressore dell’appiattimento culturale che è, in primo luogo, incapacità di ridere. Di se stessi, perché sugli altri una risata si può sempre fare. L’immobilismo cerebrale voluto, desiderato, perseguito per secoli dai Mandunji ha il suo equivalente nell’immobilizzazione fisica (per molti versi, nelle sue punte meno radicali, terribilmente falsa, soltanto retorica, parole vuote, bla bla) negli Immob; e dietro, lacerante, lo spirito di un’uniformità che è vuoto di pensieri soggettivi”.Un vuoto di coscienza capita a tutti, occasionalmente. All’uomo comune che si astiene da un dovere civile come al Presidente democraticamente eletto che decide di dichiarare guerra a un paese “nemico”. È nella natura umana, sbagliare. E nell’ordine naturale delle cose ricade l’estinzione. La civiltà è accelerazione in potenza. Eventualmente, una garanzia per l’autodistruzione finale.

Ma come cantavano gli R.E.M. “world serves its own needs…” (il mondo asseconda i suoi bisogni). Fischiate con me: “It’s the end of the world as we know it and I feel fine (It’s time I have some time alone)”. È la fine del mondo come la conosciamo… è tempo che me ne stia un po’ da solo...

Buon giorno-dopo a tutti!

 

 

 

Un ringraziamento speciale a Wikipedia, per essere venuta in soccorso dei miei banchi di memoria corrotti dalle radiazioni. Per l’opera dickiana si è resa necessaria la consultazione di Philip K. Dick: La Macchina della Paranoia, enciclopedia dickiana a cura di Antonio Caronia e Domenico Gallo.