Mattia era stato costretto a concludere che avrebbe visto Teo, il setter di Castagna, tirare le cuoia proprio davanti a lui. Il cane sbavava abbondantemente e nella schiuma giallognola che usciva dalla sua bocca aveva visto dei chiodi. Sarebbe morto soffocato con l'esofago martoriato di chiodi; Dio solo sapeva quante ne avesse in corpo. Mattia si ritrovò a pensare con disgusto che se avesse avuto con sé una calamita avrebbe potuto fare a meno del guinzaglio e sarebbe riuscito a sollevare Teo reggendolo come una normale valigia; il ferro di cavallo della calamita non si sarebbe staccato per nulla al mondo dal pelo sul dorso dell'animale e lui lo avrebbe portato a spasso così, in quello strano modo con cui i trovarobe dei teatri allestiscono il palcoscenico con grossi peluche e bestiole impagliate. Se lo avesse sezionato ne sarebbe sortito un sangue pastoso, luccicante di milioni di chiodini non più grossi delle ciglia. Certo. Sarebbe accaduto tutto questo. A Mattia bastava soltanto lasciarsi andare completamente al sonno, fare sì che il mondo si allontanasse da lui chiamando a sé il cane - ormai spacciato - di Castagna. Non aveva che da permettere all'oblio di portarlo lontano da quel luogo. E pregare che i suoi occhi non dovessero assistere agli ultimi respiri di Teo. E invece l'animale reclamò violentemente la sua attenzione emettendo guaiti atroci e schiumando con sempre maggiore intensità dalla gola e dal naso. L'agonia durò alcuni minuti, poi il cane aprì le fauci, coricò il muso di lato e vomitò un ultimo grosso bolo di saliva e chiodi. Ma respirava ancora. Mattia aprì gli occhi e li volse dall'altra parte. L'agonia del cane gli giungeva da chilometri, immersa in un buio liquido di suoni e improvvisi silenzi. Bava, sangue, un muso che sussulta, si sbatte, freme... Ancora sangue... Schiuma... Di nuovo chiodi... La schiuma arrivò ad accarezzargli la mano, poi a bagnar­gliela completamente. La ritrasse scura di sangue, ruggine e ciuffetti di pelo... Poi, d'improvviso, seppe che il cane era morto. Gli orecchi di Mattia vennero colmati da un tenue ronzio uniforme. Non riuscì a riconoscerlo, se non come il suono residuo dei chiodi che se ne andavano dal corpo del cane; il suono monocorde del ferro che migrava attraverso la terra le radici degli alberi, i fili d'erba, le foglie del sottobosco, fino ai legni delle cortecce... lassù verso i rami più alti. Forse su qualche chiodo sarebbero spuntate le ali e qualcuno avrebbe spiccato il volo. Mattia non lo poteva sapere, ma se lo sentiva negli orecchi. Udiva il canto dei chiodi, la loro litania metallica e sottile. Sporse debolmente il labbro inferiore e rigurgitò un fiotto di liquido bianchiccio. Si imbrattò tutto, ancora semicosciente. Serrò di nuovo le palpebre per non guardarsi sotto...

* * *

Aveva gli occhi sbarrati. Tremava. Non riusciva proprio a smettere. Temeva che sarebbe morta se lo avesse fatto. Era una scena bruttissima. C'era bava dappertutto e sangue e schiuma e vomito. C'era il colore marcio della ruggine, ma soprattutto c'erano i chiodi. Una marea, un oceano, un...

- Tania, non guardare! - le intimò Bronco tirandola per un braccio. - Fatti un giretto intorno, va bene?

La bimba corse via e trovò un albero al quale appoggiare la fronte. Stette a lungo con gli occhi chiusi gemendo silenziosamente; poi si girò e si sedette a terra, le ginocchia raccolte al petto. Ansimava ancora, ma il peggio era passato. Non tremava più. Sentì dei rumori: scalpiccio di stivali, terriccio smosso, mani che scavavano... E, in fondo a tutti, un debole ronzio.

Corpi trascinati, suoni metallici. Colpi. Franare di terra in una buca. E poi ancora quel ronzio, che la avviluppava e le sottraeva calore dalle guance.

Era passata forse mezz'ora da quando si erano imbattuti nei cadaveri dei due uomini e del cane da caccia. E alla fine, fratello e sorella avevano trovato la loro preda: il cucciolo di barboncino della Signora Bramanti. Si era perduto e aveva semplicemente inforcato le gambe divaricate di Bronco... come un porto di salvezza, l'uscio di casa. Non era neppure servita la rete. Fatica sprecata, lavoro inutile, tempo perso a fare nodi. Bronco lo aveva sollevato da terra e se lo era messo in grembo accarezzandolo dolcemente. Gli aveva allungato un amichevole buffetto sul musino, si era infilato una mano in tasca e gli aveva puntato il cancano sotto la gola. Tania era sempre stata sicura che lo tenesse stretto nel pugno, cacciato nel profondo della tasca destra. Neppure per un attimo aveva lasciato la presa. Ne era certa. Il cagnolino aveva cercato di leccargli le dita, pieno riconoscenza per essere stato raccolto ancora spaventato e infreddolito.. e lui, Bronco, gli aveva messo il cancano proprio sotto la gola.

- Qui! Qui, vedi Tania. Esattamente in questo punto... nella pappagorgia. Nella PAP-PA-GOR-GIA!

Mio fratello è un mostro.

I suoi chiodi, la sua ossessione, il tetano che lo divorava...

- Nella PAP-PA-GOR-GIA! - ripeté.

Tania scoppiò a piangere e cominciò a strillare più forte che poté.

* * *

La mano sana di lui si posò sopra la sua spalla tremante; era chiazzata di macchie rossastre, con le unghie sporche di terra. - Ho fatto - commentò laconico. - Possiamo tornare.

Tania lo osservò con gli occhi velati di lacrime; seppure ritenesse che fosse inutile dimostrarsi forte, aveva avuto il coraggio di tornare in sé. Non aveva più parlato dall'incontro con i corpi dei cacciatori e di uno dei loro cani e durante il tragitto di ritorno verso casa non aveva fatto altro che pregare tra sé e dirsi che doveva farsi forza. Bronco aveva alternato momenti di euforia con altri in cui sembrava immerso nella cupezza più opprimente; aveva cantato e riso, immediatamente prima di prendere a calci il tronco di un albero o di scagliare sassi verso le ombre del bosco. A Tania era stato permesso di tenere in braccio il barboncino. Purché non vi si affezionasse troppo.

- Abbiamo giusto il cancano e il suo pendaglio - aveva dichiarato Bronco - e adesso ci manca solo che ti ci affezioni. Il tuo amore deve andare al chiodo e non al suo pendaglio, quante volte te lo devo dire?

Se avesse potuto, Tania avrebbe urlato di nuovo (già una volta il suo fratellone era stato accondiscendente), ma temeva che le facesse aprire la bocca e vi infilasse una manciata di chiodini (semenze li chiamava) ordinando di non sputarne neanche uno... o magari - perché no? - di masticarli. Sì, di masticarli, per sentire i denti che si sbreccavano o si rompevano e la ruggine colarle in gola.