Quando fui seduta alla fermata dell’aviobus potei infine incorniciare il Cimitero con lo sguardo ed ebbi un’improvvisa percezione del tutto e compresi. Ogni morto nel suo schermo interattivo aveva galleggiato tutta la notte in un plancton indistinto di voci, aveva registrato frammenti di discorso, lacerti di ricordi altrui, riverberi di parole, e aveva tentato, come era stato programmato a fare, di estrarre il senso ed elaborare una coerente risposta. Semplicemente il programma era stato soverchiato. Cos’erano quei cervelli morti che brancolavano in trance tra stimoli sonori saettanti da ogni direzione, se non degli schizofrenici assediati da centurie di voci? E ciò che ora fluiva ininterrotto dalle loro labbra era il magma di quella decomposizione linguistica, un delirio di giochi di parole, incongruenze, singhiozzi, metafore...in un mondo in cui da almeno mezzo secolo nessuna metafora era mai stata pronunciata Le voci dei morti, così stranianti e diverse, apparivano ora a chi le ascoltava dense di realtà come nessun oggetto reale potrebbe mai aspirare ad essere. La loro origine elettronica era stata obliata, come se le voci emergessero da un buio ancestrale come fanali accesi, sortilegi, rivelazioni. Quasi piansi al pensiero che un guasto tecnico aveva risuscitato in una notte quel passato che avevo perseguito per anni in un silenzio clandestino.
Mi trovavo già in carcere quando le rivolte cominciarono. Mi fu riferito che la folla rabbiosa gridava: - Vogliono uccidere i morti! - mentre la polizia la fronteggiava con gli scudi all’ingresso del Cimitero. All’interno i tecnici eseguivano gli ordini, cancellando i danni di quella notte e riportando le registrazioni alla forma originaria. Ed ero ancora in carcere quando la folla infine dimenticò e ogni cosa tornò come era sempre stata. Non per tutti. Alcuni, mi fu detto, scomparvero. Si assentarono improvvisamente dalla casa, dall’ufficio, dai giorni uguali ai giorni. Abbandonarono la città camminando sul ciglio delle autostrade, predicando e diffondendo la voce dei morti. Avevano trovato una missione, un destino singolare. La polizia ne ha catturati parecchi, traendo l’impressione che non si trattasse di gruppi organizzati, ma di vaneggiamenti solitari. Altrettanto si può dire di noi. Spero che queste pagine servano a testimoniare l’estraneità mia e dei miei amici agli eventi di quella notte e a quel fatale incidente Quanto a me, sono stanca, infinitamente stanca di ergermi verso il pensiero. I medici mi hanno diagnosticato l’ipergnosia, una forma patologica di iperattività psichica scoperta vent’anni fa, che mi impedisce di integrarmi nel sistema e di essere pienamente funzionale. Mi applicheranno delle microsonde per diminuire l’attività corticale. Non rinnego la bellezza che ho vissuto, ma non so più sostenere il dolore dell’isolamento. Spero che i miei amici mi perdoneranno, ma voglio rinascere filo d’erba immemore e puro. Voglio assorbire la linfa, nutrire le mie cellule, espormi al sole comune, sperduta tra migliaia di altri fili d’erba che compiono in silenzio il proprio destino. Vedo la loro distesa, li vedo piegarsi con frusciante pallore alle voci di giorni lontani, per poi ricomporsi nell’ordine antico, senza fratture né inquietudine.
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