La luce del sole morente è una schiuma rossastra che lambisce le sbarre. È come il respiro pulsante di un oceano che si infrange su dune di sabbia ferrosa. Ne sento la sonorità di tamburo nelle vene del collo, come se tutto il mio essere fosse una pelle di capretto conciata e tesa da tiranti invisibili su un telaio di legno. Scrivo. Il mio corpo è prigioniero di queste pareti che lentamente ruotano intorno al sole. E io mi abbandono a quest’orbita lieve che trascina la mia cella, il penitenziario-alveare, la città, il pianeta intorno a un astro impietoso, che in tutte le celle proietta la stessa scacchiera. La mia testa è gravata dell’indicibile tristezza che un pensiero troppo vigile e penetrante riserva ai mortali. È un sollievo sapere che domani sarà tutto finito. C’è in me tuttavia qualcosa che si sottrae alla resa. È questo volto sfuggente, questa presenza che mi respira accanto, che ora regge in mano questa penna e si accinge a narrare a una platea vuota il corso autentico degli eventi. Testimonierò questa verità che mi è ormai indifferente, prossima come sono al cedimento, ormai complice della potenza che qui mi trattiene, sospesa al di sopra dell’innocenza e della colpa, pronta a rinascere in un mondo ignaro di menzogna.
Era la vigilia del giorno dei morti. Il mezzo pubblico era troppo riscaldato e il vapore si era rappreso sui vetri. Al di là, lo sapevo, scivolava la grande periferia, ma tutto ciò che riuscivo a vedere erano il riverbero di luci sospese e i profili smussati e liquefatti dei grattacieli. Le feritoie scure delle finestre si scomponevano in tremanti barbagli di buio. Osservavo il profilo incostante del cavalcavia sgretolato da lamine di pioggia. Quando scesi dall’autobus il Cimitero era di fronte a me, in fondo a un’ampia arena di terra battuta. Compresso contro il cielo grigio sembrava come non mai nel centro del nulla. Era una visione che risvegliava nell’anima il senso del sublime, anche se la rivedevi per la milionesima volta. Quando gli ingegneri avevano sintetizzato dalla bava filante secreta dai ragni il nuovo materiale membranoso, trasparente come il vetro ma infinitamente più resistente, il Cimitero era stato il primo edificio a essere edificato in aracnite e, data la spesa sostenuta, anche l’unico. Ma ora si ergeva superbo e inviolato nei suoi quindici piani di puro cristallo, come un acquario sezionato dalle paratie traslucide che delimitavano il tracciato delle sepolture. Si chiamavano ancora così, benché nulla restasse della primitiva grossolana tumulazione. Le ceneri erano trattate con processi di compressione e riscaldamento. Il prodotto veniva sfaldato, sbozzato e polito fino a creare un poliedro della stessa durezza e sfaccettatura del diamante. Incastonati nelle pareti vitree i morti rifrangevano la luce creando lo spettrale miraggio di una via lattea sospesa in un cristallo verticale. L’edificio palpitava come una fiamma prigioniera nel ghiaccio. Il baluginio di migliaia di lumini scarlatti si espandeva nelle interiora del labirinto creando diffrazioni intermittenti e sanguigne. Le pareti erano interrotte solo dall’opacità bluastra degli schermi al plasma che mostravano il volto dei morti. Collocati in tutte le angolazioni possibili, sembravano frammenti di un cielo esploso. Estraendo dalla tasca la mappa umida e sgualcita entrai nell’edificio e salii con l’ascensore fino al decimo piano. Camminavo lungo i corridoi del labirinto aspettando pazientemente che ad ogni svolta l’ingorgo dei visitatori si sciogliesse. Per sfruttare ogni minimo spazio, il tracciato dei passaggi si ripiegava tormentosamente su se stesso, creando delle stanze chiuse su tre lati. Al di là delle barriere di insonorizzazione, le persone sostavano di fronte agli schermi a parete, concentrate in un dialogo intenso con i propri morti. Sopra, sotto, da tutti i lati migliaia di persone sorridevano, stavano in ascolto, le mani si agitavano, si torcevano, oscillavano abbandonate lungo i fianchi, tutto immerso nel silenzio più straniante. Protetti dalle cupole insonorizzanti i corpi sembravano inarcarsi e beccheggiare come pesci in uno stagno limpido.
Raggiunsi infine la tomba. Appoggiai il polpastrello sullo scansionatore e la barriera virtuale si irradiò intorno a me isolandomi. Sullo schermo apparve il volto di Sergio, quello che si era fatto registrare a Parigi in quell’ultimo aprile. Nella curva luminosa del suo sorriso ristagnavano ancora gli effluvi profumati delle giunchiglie di Ménilmontant e le guance erano lievemente arrossate per la nostra corsa sotto i tigli del viale, sotto il verde fogliame vigoroso scintillante delle nostre risate. E nella sua memoria c’era tutto. Ogni singola parola pronunciata o scritta durante la vita era stata registrata, assemblata dagli addetti allo stoccaggio ed elaborata dai programmatori in modo da renderla interattiva. Il programma era in grado di analizzare il significato di ogni mio costrutto verbale e selezionare la risposta adeguata tra le migliaia pronunciate in vita.
- Sergio - dissi, attivando il sistema.
- Ciao amore, come va? - disse il suo volto sorridente.
- Non bene, quelli della Buonconsumo mi stanno alle costole. Mi sono già arrivate due lettere. Ho un credito ingente sul mio conto e non l’ho ancora speso. Minacciano di mandarmi in prigione se continuerò a boicottare l’economia.
- La prigione - rispose con un lampo di ironia, - fa decantare i grandi ingegni. Isola i tuoi sensi e scava un sentiero che discende nel profondo, verso stati della mente che non prevedono espressione o condivisione.
- Già - dissi - un sentiero senza ritorno.
- Wilde lo attraversò - riprese, - e a parte una ballata e un pugno di lettere non scrisse più una parola. Si accontentò di essere scritto dalla vita insondabile.
- In ogni caso, - conclusi, - io non voglio andarci in prigione.
- Certo che no.
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