Quanto di autobiografico c’è nella tua narrativa?
Ne ho già accennato sopra: in molte mie storie c’è dell’autobiografia. Per citare Fellini, il compianto regista: “Sarei autobiografico anche se filmassi la vita d’un pesce”. Oltre alle storie già citate sono autobiografiche quelle che ambiento qui in Puglia, o sulle Murge, la catena collinare che attraversa la regione da nord a sud. Tanto per dirne una: sempre in Breve eternità felice di Vikkor Thalimon, il protagonista si muove nelle foreste di un lontanissimo pianeta, Toba Srom: ebbene, quelle strane piante sono un’amplificazione fantastica della campagna in cui vissi i miei primissimi anni. Era tempo di guerra e la mia famiglia si trovava a Francavilla Fontana, un paesino in provincia di Brindisi. Per un certo periodo abitammo nella casa contadina (un grande cubo di tufo scuro) d’una campagna ricchissima di pini, filari di uva, piantagioni di tabacco. Lì ho i miei primi ricordi, potevo avere tre anni, e a me quelle piante sembravano enormi. Lo stesso scenario si ritrova più evidente e quasi letterale in Nella sfera, storia di una futura carovana di girovaghi in un contesto da dopo-catastrofe. E sono solo un paio di esempi.
Raccontaci il tuo processo creativo: come nasce una storia di Vittorio Catani?
Posso solo dire che raramente la storia ha un facile avvio. Lo spunto può nascere da una riflessione su un evento qualunque del mondo reale, capace di colpirmi la fantasia o provocare un’associazione di idee insolita. Altre volte l’idea “viene da sé”. Ma in un caso o nell’altro, prima di tirarne fuori una storia con personaggi, eventi, dialoghi e finale ce ne corre! Non ho l’abitudine di farmi “scalette”, il che spesso è un male. Comunque quando “emerge” l’idea (e su questo meccanismo non saprei assolutamente cosa dire, se non che esso ripercorre percorsi onirici: avere un’idea narrativa è certamente come fare un sogno ad occhi aperti), devo rimuginarci sopra qualche giorno, se non qualche mese. A questo punto magari scrivo delle annotazioni, non è una scaletta ma un modo per non dimenticare i pochi dettagli di cui dispongo. Verrà un momento, dopo rimuginamenti ed elaborazioni, in cui mi sentirò abbastanza sicuro da sedere davanti alla tastiera e al “foglio” bianco con in mente uno schema di massima. Poi basta scrivere le prime righe ed “entro” nello spirito della storia. Non so quanto impiegherò per terminare, ma il processo è avviato. Questo per i racconti. Indubbiamente per opere più lunghe la faccenda è maggiormente complessa e magari riempio un paio di pagine di appunti e i tempi sono più lunghi, ma il resto non cambia. Un’aggiunta importante. Per scrivere ho bisogno di serenità. Il che significa anche: avere un coniuge o un compagno/a o chiunque sia, che abbia quanto meno stima della fantascienza, cioè che comprenda le ore che vi si dedicano. Mie precedenti esperienze al riguardo sono state catastrofiche e maestre di vita. Per fortuna da metà anni ’90 convivo con Isa: appassionata di letteratura, poetessa, simpatizzante di fantascienza (abbiamo anche scritto pagine a “quattro mani”) nonché mia spronatrice e primo, prezioso giudice dei miei lavori…
Con Gli universi di Moras sei stato il primo autore a vincere il Premio Urania nel 1989. Com’è cambiata secondo te la fantascienza italiana da allora? E qual è la situazione di oggi, secondo te?
La fantascienza italiana dal 1989 è cambiata parecchio anche perché è cambiata la fantascienza in sé. La quale a sua volta si è trasformata a seguito delle mutazioni della società e del mondo. Una delle cause interne al genere più note ed evidenti fu a suo tempo l’avvento del cyberpunk (un “movimento” che però è finito da tempo, lasciando per strada anche tanti orfani). Lo stesso mainstream non è quello di 18 anni fa e non c’è bisogno di portare esempi. E tuttavia per la fantascienza italiana direi che, gattopardescamente, tutto è cambiato per non cambiare nulla.
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