Conan, il re ladro

Il Conan di Howard, cresciuto nella nordica Cimmeria, sarebbe (scrive Howard in una lettera in cui lo definisce “di sangue misto”) nipote di un emigrante di una tribù del sud della regione, sfuggito a una faida e che forse coi suoi racconti ha fatto nascere in Conan l’impulso a visitare le ambientazioni di quelle storie. Anche se mai approfondita nei racconti, questa ascendenza presenta la sua condizione di perpetuo outsider come una sorta di

predestinazione familiare. I cimmeri, fra l’altro, avevano la “pelle scura, anche se non così scura come gli abitanti di Zingara, Zamora e i Pitti”, scrisse Howard. Già provata con Kull, si può cronologicamente ricostruire una success story in cui il personaggio ascende nella scala sociale da schiavo a ladro, soldato e pirata, e finalmente a re. Ma ovviamente c’è molto di più (molto più del machismo con cui lo hanno identificato film, illustrazioni e fumetti) in Conan, massimo trionfo di un autore che chiaramente si identifica col suo personaggio. Come è inevitabile per i personaggi seriali di ogni scrittore popolare (tanto più se dalla prolificità fluviale come Howard), è impossibile scegliere una storia esemplare: la dimensione a lui più congeniale è il racconto lungo, la novelette, che gli consente una trattazione articolata della materia senza i rischi della digressività picaresca: all’architettura del romanzo, Howard aveva appena iniziato ad arrivare. Ma nel racconto, Howard dimostra un’economia della scrittura sicuramente superiore a tutti i suoi contemporanei del fantastico pulp: minime concessioni al dettaglio esotico, e anche nelle più cruente scene di battaglia, una concisione descrittiva degna della pragmaticità dell’eroe. Solitamente, la strategia è di proporre, all’inizio, un’immagine—un luogo o situazione narrativa: uno spazio urbano, un’intrusione furtiva, ecc.—per fare di questa metafora il centro catalizzatore non solo dell’azione ma anche dei racconti che permettono, al lettore e talvolta anche al protagonista, di crearne il contesto attraverso i dialoghi. Più ancora che da villain, guerrieri e belle donne, Conan è circondato da inarrestabili storyteller. Per riprendere un discorso iniziato nel panel howardiano alla convention di Fiuggi, lo scorso marzo, un momento tipico è l’inizio di La figlia del gigante dei ghiacci (1934): una sanguinosa battaglia è terminata, descritta solo sulla base dell’osservazione del campo innevato, poi un ultimo duello, e la visione della misteriosa ragazza (una rivisitazione della Regina delle nevi di Andersen?). Ma appunto, su tutto, l’azione e le storie nella storia, domina quell’immagine desolata di un gelo di morte, figlia putativa di Moby-Dick e diretta del Gordon Pym di Poe, che non sarebbe stata superata per efficacia fino a Ursula Le Guin e a La mano sinistra delle tenebre.Fra tutti i suoi personaggi, Conan (ripete spesso Howard) sembra scriversi da solo. I racconti non sono scritti con in mente una storia da intendere come realmente alternativa a quella “accettata”, scrive in L’età hyboriana; si tratta, non dimentichiamolo, solo di uno sfondo letterario, e in realtà non sempre sembra esserci un totale controllo sulla materia (lo riconosce lui stesso). Quanto alla direzione che avrebbe potuto prendere il ciclo, scrisse Howard nel marzo 1936 a P. Schuyler Miller, futuro scrittore SF e recensore di Astounding:

Francamente, non lo so prevedere. Scrivendo queste storie non sentivo tanto di crearle quanto, semplicemente, di raccontare le sue avventure come lui le raccontava a me. Ecco perché ci sono tutti questi salti, che non seguono un ordine regolare. L’avventuriero medio, che racconta casualmente le storie di una vita selvatica, di rado segue un progetto ordinato, ma narra episodi ampiamente separate nello spazio e negli anni, come gli vengono in mente.
Anche Conan è figlio del west, come Howard scrisse nel 1935, in una nota autobiografica inviata alla Fantasy Magazine, la fanzine curata da Julius Schwartz (in seguito grande del fumetto): “Semplicemente, Conan mi è cresciuto in mente qualche anno fa, mentre mi fermavo in una cittadina di confine sul basso Rio Grande”. E a Clark Ashton Smith parla del “realismo” del suo personaggio, in cui “ le caratteristiche dominanti di vari pugili, pistoleri, contrabbandieri, bulli da campo di petrolio, giocatori e onesti lavoratori con cui ero venuto in contatto, combinate insieme, produssero l’amalgama che chiamo Conan il Cimmero”. Le ambientazioni del folklore texano e le leggende sui guerrieri Indiani tornano in Al di là del Fiume Nero (1935), dove vediamo Conan con arco e frecce, sulle rive di un fiume al margine di una foresta; il racconto si conclude con un boscaiolo che, davanti a una brocca di vino, dice a Conan [per motivi di praticità, tutte le traduzioni sono mie]:
“La barbarie è la condizione naturale dell’umanità. La civiltà è innaturale. È un capriccio delle circostanze. E la barbarie deve sempre trionfare”.
Se il barbaro sottoscriva o meno le sue parole, Howard non ci permette di saperlo: un’ambiguità opportuna, per un personaggio che, in entrambe le dimensioni, ha incontrato e subito violenze tremende. In questo racconto, scriverà a Lovecraft,
“ho abbandonato le ambientazioni esotiche in civiltà perdute, civiltà decadenti, cupole dorate, palazzi di marmo, ballerine vestite di seta ecc., e ho lanciato il mio racconto su uno sfondo di foreste e fiumi, capanne di legno, avamposti di frontiera, coloni vestiti di pelle di daino e uomini tribali dal corpo dipinto”.
Gli stessi sfondi risuonano anche nel titolo dell’incompiuto Wolves Beyond the Border, in cui i Pitti, con la loro Danza del Serpente Mutante, incontrano per la prima volta un uomo bianco, fra forti, avamposti e nomi di chiara derivazione nativa come Conawaga. Lo stesso vale per il postumo The Black Stranger (noto anche come Il tesoro di Tranicos): qui, l’opposizione di fondo è fra il forte civilizzato (ma indebolito dalla decadenza) e la minaccia incarnata in apparenza dall’ “uomo nero” incombente dal bosco, e forse infiltratosi nella fascia di sicurezza. La minaccia è cosmica: una nube che “si riversò sul bordo del mondo con grande masse bollenti di nero, venate di fuoco”. Dalla wilderness, chiaramente un ricordo delle ambientazion western, di quei boschi (preceduto dalle tremende leggende che lo riguardano) arriva anche Conan; però, l’uomo nero non è lui, come in realtà il racconto ci fa dubitare per decine di pagine. La verità è che il negromante di turno ha trasformato in schiavi “il popolo nero”: the black folk, si insiste in corsivo, ed è difficile evitare di pensare a The Souls of Black Folk, il classico saggio di W.E.B. Du Bois, leader dell’emancipazione afroamericana di inizio secolo, studioso delle tradizioni folkloriche e autore di innumerevoli romanzi popolari, “politici” ma con plot esotici e avventurosi che non sarebbero dispiaciuti ai lettori di Weird Tales. Dall’orrore della schiavitù magica derivano i fantasmi che infestano il presente.