Basterebbe citare Philip Michael Thomas, Rico nel telefilm Miami Vice, per inquadrare Grand Theft Auto: Vice City Stories. A essere generosi, si potrebbero fare un altro paio di nomi del cast vip del gioco, Luis Guzmán (Carlito's Way) e Phil Collins (che interpreta se stesso), magari pescando poi dal mucchio di canzoni (un centinaio) della colonna sonora alcuni brani, come Gloria di Laura Branigan, Relax dei Frankie Goes to Hollywood o We Belong di Pat Benatar. Grand Theft Auto è tipo un film di Tarantino, dove già i particolari della produzione sono coordinate per disegnare quello spaccato citazionista di cultura pop che racconta. E con Vice City si parla del periodo più pop di tutti, gli anni ’80.
Se li avete vissuti anche solo di sfuggita o in differita, nelle repliche della tv, molto probabilmente condannerete volentieri l’umd Rockstar a un ergastolo da trascorrere dentro il vano dischi della vostra Psp, senza appelli, libertà sulla parola o buona condotta che tengano. Ma in effetti non ci sono grossi rischi. Il sogno americano di Grand Theft Auto passa per una strada lastricata di malefatte e Vice City Stories non fa eccezione. Anzi, un pochino sì, ma proprio poco poco, una sfumatura. Sarà la coda del turbinio di polemiche che hanno investito i videogame “politicamente scorretti”, sarà la baraonda scatenatasi attorno al caso hot coffee su cui è scivolato San Andreas, sarà che a quelli di Rockstar si è risvegliata d’un tratto la coscienza o sarà che avevano semplicemente voglia di cambiare il taglio della sceneggiatura.
Sarà, ma Vic, il vostro alter ego, almeno all’inizio ci prova a rigar dritto. Prima di capire, s’intende, che Vice City non è il posto migliore per costruirsi un futuro da bravo ragazzo. È allora - molto presto - che si fa furbo e sposa il lato oscuro della società contemporanea: assassinii, traffico di droga, sabotaggi e atti illeciti vari per un fedina penale che potrebbe unire la Florida e l’Alaska. Verrà buono il talento gangster coltivato con gli episodi casalinghi della saga, di cui questa versione Psp è una riproduzione fedele - o fin troppo pedissequa; dipende da come la si guarda - di tecnologia e dinamiche (con una manciata di aggiunte rispetto alle consuetudini pre San Andreas: la capacità di nuotare, le bmx, i quad e il multiplayer wireless).
La trama invece è il classico puntatone speciale con le rivelazioni, dedicato al capitolo più di culto di tutti i Grand Theft Auto, quel Vice City del 2002 ambientato in una fantasiosa Miami del 1986. Chi lo conosce a menadito gusterà tutti i rimandi disseminati nello spin-off. Le vicende di Vice City Stories si svolgono due anni prima, nel 1984, e Vic di cognome fa Vance, come Lance Vance (Philip Michael Thomas), suo fratello, la spalla di Tommy Vercetti, il protagonista di Vice City. In Vice City Stories si ripercorrono le tappe della scalata criminale del giovane Vic, l’anticamera alla sventagliata di piombo con cui un killer mette fine alla sua vita nella sigla di apertura di Vice City.
C’è da divertirsi, ridere, chiedersi come andrà avanti. Il grottesco di Grand Theft Auto è una garanzia e Vice City Stories non esce dalla consuetudine della scrittura brillante sulla quale si poggia parte del successo della serie. Mantiene anche quella sottolettura critica, da parabola nera recitata in parodia del mondo di oggi, delle sue storture e del suo spettacolo gretto. Certo, lo fa intrattenendo alla Scary Movie con scenette rubate – per restare in tema – alle sinapsi del divoratore di pop culture in forma di tv, cinema, fumetti e videogiochi. Ma se volete andare al di là, c’è anche quello, insieme a qualche maledizione lanciata al sistema di controllo – ormai gli appassionati ci hanno fatto il callo – e alle lacrimucce per i ricordi di ieri, che Vice City Stories contribuisce a far riaffiorare con mille stratagemmi. Gran bel risultato per un “pezzo di software”.
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