Se le cronache dello Sprawl potrebbero essere facilmente situate tra gli anni Trenta e Quaranta del XXI secolo, con la serie del Ponte Gibson si pone a cavallo tra la prima e la seconda decade del nuovo millennio: gli anni, insomma, che già oggi stiamo vivendo. Nel futuro da lui immaginato violenti cataclismi hanno sconvolto le due coste del Pacifico. Se in Giappone si è subito intervenuti spingendo per la ricostruzione di Tokyo attraverso un impiego massiccio di nanotecnologie, l’America reca ancora le ferite dell’apocalisse. Il Big One non ha solo distrutto le città: la sua eco si è infatti propagata anche a livello politico e sociale, portando alla frammentazione della California (il più grande stato dell’Unione, che da sola già oggi rappresenta l’ottava potenza mondiale a livello economico) in due stati distinti, la California del Nord e la California del Sud.
Dallo Sprawl l’interesse di Gibson si sposta qui all’area della Baia di San Francisco (la cosiddetta Bay City echeggiata poi nei romanzi di Richard K. Morgan , che non ha mai nascosto la sua passione per lo scrittore americano). Gran parte delle storie ruotano intorno al ponte che collega San Francisco a Oakland, il cosiddetto Bay Bridge, convertito in un avveniristico e instabile microcosmo urbano: dichiarato inagibile dopo il terremoto, il ponte è stato infatti occupato da un gruppo di manifestanti nel corso dei tumultuosi disordini sociali descritti nel racconto La stanza di Skinner (incluso poi in Luce Virtuale). Il gesto di disobbedienza che porta alla proclamazione di una “zona temporaneamente autonoma” anticipa di ben otto anni i giorni di Seattle che nel 1999 imporranno all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale il movimento no-global, a dimostrazione della potente carica estrapolativa che in Gibson riesce a sgorgare – con straordinaria naturalezza – da una visionaria lucidità critica. Quelli che con gergo mutuato dalla politica italiana contemporanea potremmo definire come disobbedienti, cominciano a edificare sul Ponte la loro comunità, decretando la nascita di una città nella città, una bidonville verticale costruita con materiale edilizio di scarto e recuperi di fortuna sulle strutture preesistenti. Presto il Ponte sviluppa una sua autonomia, popolandosi di reietti, disadattati, fuggiaschi, artigiani, antiquari e artisti affascinati dal fascino bohémien della vita che vi si conduce, e maturando una sua economia indipendente. Nei ringraziamenti di Aidoru, Gibson dichiara di essere rimasto molto impressionato dagli scorci della Città Fortificata di Kowloon, immortalata negli scatti di Ryuji Miyamoto. La cosiddetta Walled City è stata per anni una zona off-limits per le autorità di Hong Kong, dominio incontrastato delle Triadi e ghetto malfamato dapprima popolato da profughi giapponesi e poi occupato da squatter e sfollati. Prima che il governo della città ne decretasse la demolizione, regolarmente portata a compimento nel 1993, la Città Fortificata si era sviluppata in un intrigo labirintico di moduli prefabbricati, concentrando oltre 50mila persone su un territorio di appena 2 ettari e mezzo (il Vaticano, per intenderci, è grande quasi il doppio). Il sogno dell’utopia urbana viene sublimata nelle pagine di Gibson, dove rivive la realtà sociale di Walled City, ripulita dalle innumerevoli zone d’ombra della sua vera storia e trasfigurata nell’istituzione di un sistema adhocratico funzionale e autosufficiente, per quanto non completamente schermato dalle interferenze del mondo esterno.
Sul Ponte cerca rifugio Chevette Washington, una ragazza pony-express con cui sembra imparentata l’eroina di Dark Angel, ideata da James Cameron e interpretata da Jessica Alba in una fortunata serie TV. Per via del suo lavoro come corriere Chevette è infatti venuta in possesso di un oggetto che fa gola a molti: un paio di occhiali molto particolari, ai quali si deve il titolo del romanzo d’esordio della trilogia. “Luce virtuale” è un’espressione coniata dallo scienziato Stephen Beck in riferimento a una tecnologia in grado di produrre la sensazione visiva direttamente nel nervo ottico, senza passare attraverso la mediazione della retina e dei fotoni che naturalmente vi imprimono l’immagine. Uno strumento simile rappresenta la promessa per le comunicazioni del futuro, specie nel panorama multimediale che fa da sfondo al romanzo.
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