L’albero della vita – The Fountain è il terzo film di Darren Aronofosky, regista di culto pressoché ovunque tranne che in Italia, vista la triste sorte nel nostro paese dei suoi due straordinari film precedenti: Pi – il teorema del delirio e Requiem for a Dream. Il primo ha avuto una distribuzione minimale, l’altro non è mai uscito nelle sale cinematografiche.
Interpretato da Hugh Jackman e Rachel Weisz, L’albero della vita – The Fountain è stato presentato con scarso successo a Venezia e Toronto dove ha incontrato la delusione di addetti ai lavori e fan. “The Fountain è come uno spumone, un dolce napoletano che mangiavo quando ero piccolo a casa mia a Brooklyn” protesta il regista “E’ fatto di vari strati che vanno assaporati in maniera diversa. Andrebbe rivisto più volte.” Ci sono voluti sei anni ad Aronofsky per realizzare questa pellicola che doveva avere nel cast originario Cate Blanchett e Brad Pitt, casualmente poi finiti per interpretare insieme Babel di Alejandro Gonzales Inarritu.
La trama ruota intorno all’albero della vita del giardino terrestre, che influenza tre storie differenti in tre periodi di tempo differenti: il passato all’epoca dei conquistadores spagnoli, il presente dove un medico cerca di salvare sua moglie dal cancro e un futuro remoto. The Fountain racconta una storia d'amore e di spiritualità, sospesa tra il fantasy e la metafisica, che attraversa mille anni di storia dell'umanità e in cui l’apprezzamento per la vita passa attraverso l’accettazione della morte.
Il film si chiama The Fountain, ma – in realtà – al centro della storia c’è un albero…
Mi sono immerso moltissimo nella lettura di testi antichi e di saggi. Alla fine riesci a tracciare dei collegamenti altrimenti impensabili. La fontana dell’eterna giovinezza potrebbe essere intesa anche come un albero rovesciato. Visivamente un albero ricorda moltissimo una fontana: una fontana cristallizzata nel tempo…
Quali miti ha studiato particolarmente?
Sicuramente di grande ispirazione è stata per me la saga di Gilgamesh, ma anche, più in generale, la lettura della Bibbia. Mi sono dedicato a uno studio approfondito del mito della fontana dell’eterna giovinezza. Alla fine il mio lavoro non è tanto quello di un regista, ma di un artigiano all’arcolaio che con i suoi fili traccia i disegni di un arazzo. Prendo idee diverse provenienti da elementi differenti e provo ad unirle insieme, per, alla fine, trasformarle in qualcosa.
Cosa l’ha spinta verso questa storia?

Come sceglie i soggetti da portare sullo schermo?

Parliamo di Hugh Jackman…
Mi ha chiamato subito dopo avere terminato di leggere la sceneggiatura. Aveva alcune curiosità e alcuni dubbi. Voleva conoscere l’origine di certi elementi, ma, sostanzialmente, aveva perfettamente compreso il senso della trama e del film. Negli otto mesi di preparazione ha letto molto e ci siamo scambiati molte idee riguardo alla storia e al tema. E’ stata una fase di preproduzione molto intensa.
Quando ha deciso di diventare regista?
Quando ho scoperto il cinema straniero e in particolare quello europeo. Akira Kurosawa e Federico Fellini hanno completamente cambiato la mia vita. Sono loro i miei due maestri e ho visto i loro film così tante volte da superare di gran lunga qualsiasi altra cosa abbia mai visto al cinema in seguito. Sono la mia ispirazione. Credo che dopo di loro agli altri registi resti veramente poco altro da fare se non addirittura nulla…
Un regista in crisi dovrebbe vedere Otto e mezzo…
Sicuramente, anche se il mio film preferito di Fellini resta La Dolce Vita.
Nel corso della lavorazione lei è diventato anche padre…
Be', la genetica è un altro tipo di fontana della vita e dell’eterna giovinezza. Il mio prossimo film probabilmente rifletterà su questa esperienza…
Quanto si sente influenzato dal suo background ebraico nell’essere un cineasta che si confronta quasi sempre in maniera estrema con tematiche legate all’assoluto?
Non so se il mio cinema sarebbe diverso se fossi cresciuto cattolico o buddista. E’ una domanda difficile. Non sono cresciuto in una famiglia molto religiosa, ma sicuramente è tradizione dell’ebraismo puntare alla ricerca del significato ultimo della vita e della sua comprensione. Se questi elementi sono presenti nel mio cinema non derivano dalla mia educazione, ma dalle mie radici. Quando avevo quattordici anni, poi, ho iniziato a leggere Sartre e a conoscere in maniera approfondita le tematiche dell’esistenzialismo. La mia vita è diventata una ricerca costante da allora…
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