La danza elettrica delle IA: Invernomuto e Neuromante
Il talento di Gibson esplode però all’uscita di Neuromante e investe con la violenza di una supernova il panorama della fantascienza degli anni Ottanta. Il genere era reduce dall’esperienza della New Wave consumatasi nel decennio precedente, ma il revanscismo raeganiano e il riacutirsi delle tensioni sull’asse Washington-Mosca non lasciavano preludere un futuro di magnifiche sorti e progressive per il genere umano, quando nel 1984 il romanzo di un esordiente si guadagnò gli onori della critica fantascientifica americana, imponendosi nei tre principali premi di settore, il Nebula, lo Hugo e il Philip K. Dick Award. Il libro era stato pubblicato in edizione economica dalla Ace Books, nota casa editrice nordamericana, che lo aveva inserito nella risorta collana degli Ace Science Fiction Specials curata da Terry Carr.
Gibson era stato contattato da Carr dopo la pubblicazione dei suoi primi racconti: intuendo la stoffa del vero autore, l’editor gli aveva suggerito di mettersi al lavoro su un romanzo, un’opera lunga che sapesse valorizzare le sue doti di stilista. Gibson, piuttosto spaventato, si mise all’opera sulla sua macchina da scrivere, una mitica Hermes 3000 di fabbricazione svizzera, la stessa su cui aveva battuto tutti i suoi racconti scritti fino a quel momento. Non sapendo da dove cominciare, fece l’inventario di quanto già aveva a disposizione: lo scenario di La notte che bruciammo Chrome era un ricordo fresco e altrettanto vivide risultavano le dinamiche dell’underground metropolitano, popolato da hacker, rigattieri, mediatori, tirapiedi yakuza. E siccome le fonti di ispirazione non gli mancavano di certo, Gibson cominciò a riversare nelle 200 pagine del suo dattiloscritto una porzione consistente dei suoi interessi e delle esperienze che aveva maturato fino ad allora: e così schegge di canzoni rock degli anni Settanta (Lou Reed in primis, ma anche gli Steely Dan e il dub di matrice giamaicana, citati a più riprese) finirono mescolate con visioni prese in prestito dai suoi viaggi (Istanbul, la East Coast) e dalle sue letture (Delany, Pynchon, Burroughs). In Neuromante confluì anche una visione potente e apocalittica suggerita da una delle battute più memorabili del leggendario 1997: Fuga da New York di John Carpenter: per l’esattezza mi riferisco a quella in cui il Commissario Bob Hauk/Lee Van Cleef si rivolge a Snake Plissken/Kurt Russell dicendo qualcosa tipo: “Hai volato con il Wing-9 sopra Leningrado”. Una frase questa verso la quale Gibson non ha mai nascosto di avere un debole, in virtù della sua capacità di riportare in una dimensione di normalità e di familiarità un’idea fantascientifica, fornendo in questo modo al lettore e allo spettatore gli strumenti per interpretarne il significato, strumenti che non dovrebbe invece possedere a priori. Ma tra le fonti d’ispirazione del romanzo rientra anche un fumetto pubblicato in due puntate su Heavy Metal, la storica sorella americana della leggendaria “Métal Hurlant” francese, e nella fattispecie una storia noir dalle tinte ironiche e grottesche scritta da Dan O’Bannon (che sarà poi sceneggiatore di film come Alien per la regia di Ridley Scott, Atto di Forza di Paul Verhoeven e Screamers – Urla dallo Spazio, tratto dal racconto Modello Due di Dick) e disegnata dal mitico Jean Giraud (in arte Moebius), ambientata in uno scenario futuro che ispirerà la stessa mise-en-scène di Blade Runner: The Long Tomorrow.
Il risultato è un libro epocale, un’esperienza di lettura sicuramente non facile ma senz’altro ripagante, dotato di un potere di suggestione non comune e capace di sconvolgere con l’onda lunga del suo successo l’intero panorama della letteratura degli anni successivi. Un libro che ancora oggi è il termine di paragone di tutti i romanzi che ambiscono a proporsi come manifesti generazionali. La qual cosa è tanto più significativa se si tiene conto del fatto che mentre lo scriveva il suo autore non aveva certo intenzione di imporre il suo stile e le sue visioni a nessuno, ma entrambi gli elementi erano troppo forti e riusciti per non istituire la loro regola nell’immaginario degli autori della sua epoca. Anche se, è opportuno precisarlo, una certa nobiltà d’intenti non era estranea ai propositi originari dell’autore: il titolo, da solo, è tutto un programma. Neuromante è infatti lo sciamano elettrico, il mago della consolle dedito a matematici rituali di negromanzia cibernetica. E Neuromante è anche l’IA che Case, lo sventurato protagonista del romanzo, riceve l’incarico di “attaccare”, o forse “liberare”. La sua missione, oltre che ambigua, si prospetta anche come un piano suicida, ma assume sempre di più le sembianze di un risveglio alla coscienza, con una inversione di ruoli che già promuoveva alla dimensione del mito il duello tra cacciatori e replicanti nel capolavoro cinematografico di Ridley Scott. “Neuro, dai nervi, i sentieri d’argento” spiega a un certo punto l’IA. “ Neu… romante. Negromante. Io evoco i morti. Ma no, amico mio… Io sono i morti, e la loro terra.” E più di una volta Case viene guidato lungo il sentiero dei morti, a incontrare nell’illusione della memoria i fantasmi del passato.
Ma Neuromancer, in inglese, suona anche come New-Romancer, che sta tanto per “nuovo romanziere”, quanto per “nuovo romantico”. A sottolineare il livello di consapevolezza critica di Gibson, che ispirò gli scrittori della sua generazione che, restii all’etichetta “cyberpunk” appiccicata dagli addetti dell’industria editoriale americana, avrebbero preferito di gran lunga essere indicati come Mirrorshades Group o, appunto, “neuromantici”.
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