Mi incamminai. Il segreto del Vesuvio stava preparando la scena. A ogni mio passo, la mia giacca si allungava di qualche centimetro. Dopo aver superato il primo palazzo era diventata un mantello spesso e nero. Davanti mi era spuntato un camiciotto di pizzo, i pantaloni si erano serrati alle cosce e si erano infilati negli stivali che da sempre avevo sognato di possedere, quelli delle sette leghe. Alle mie mani erano apparsi guanti di cuoio coi paracolpi, e la spada datami da Salvatore, fattasi lucida e fiammante, era entrata in una fondina argentata. Mi fermai e la estrassi. Ne strinsi il manico: il mio polso era saldo. La puntai contro il muro e affondai per farla flettere. La punta fece saltare una scheggia di tufo e s’incurvò fino quasi a toccare l’elsa. Sentii trasmessa nel braccio, fino al collo, la grande elasticità di quel nervo d’acciaio. Mi venne lo sguardo dell’aquila. Ero giunto al palazzo. Varcai l’arco. Tutto si svolse in pochi attimi. Vidi la tomba scoperchiata e sulla pietra Girolamo, in piedi, che mi aspettava. Mi attaccò subito. Non mi ero sbagliato, era agilissimo e forte, nonostante la mancanza dei mignoli. Sudore caldo e sudore freddo mi imperlavano la fronte. La pioggia attutiva i rumori e rendeva azzurre le scintille che sprizzavano dai nostri ferri agitati. Ero il barone di Sigognac, il Capitan Fracassa, di nuovo in azione. Quello spirito nobile e giusto che era già nella mia mente non faticò a trasferirsi nei muscoli e nei tendini, per affrontare il maestro di tutti i cattivi: Girolamo il napoletano.
L’avventura continua, e anche il romanzo di Gautier. Ed ecco Capitan Fracassa a Napoli nei miei panni, cioè io nei suoi, al domicilio del maestro, per punire chi insegna la nobile arte della scherma ai banditi.
E giù colpi, di punta e di taglio, tra salti, avanzamenti, arretramenti, nella nebbia napoletana. I muri e il lastricato della corte erano rinati, segnali evidenti del viaggio all’indietro nel tempo, forse nell’epoca della prima discesa degli Alieni Cattivi nel Vesuvio, quando crearono il Barocco e la Camorra. In una breve pausa, mentre dalle nostre bocche uscivano ritmici i vapori, ebbi il tempo per osservare gli stucchi del palazzo splendere a giorno, i legni delle porte e delle travi ai soffitti brillare vivaci, e le ringhiere in ferro sulle scale e sulle balaustre sfavillare. - Ah, Luce delle città meridionali, - declamai - che per secoli hai abbagliato l’Europa! Perché ti sei spenta?
L’età e la mole di Girolamo rallentavano il suo combat. Stremato, decise di ricorrere alla botta, la sua diabolica invenzione omicida. Avevo già parato (cioè il Capitan Fracassa aveva già parato) la botta di Lampourde, l’allievo di Girolamo, e quell’attacco sleale si era concluso con la sua spada spezzata, lui a terra e la punta della mia a un dito dalla sua gola. Lo avevo risparmiato, così era diventato buono e amico mio. Ma quella volta, sul ponte parigino dei duelli, tutto si era succeduto in un baleno e io avevo reagito d’istinto e non ero riuscito a capire in cosa consistesse la botta, che aveva squarciato il petto di molti giusti, dato che la conoscevano solo i dannati. Ma a Jacques non avevo più chiesto nulla, lasciandogli l’idea che avessi capito il trucco. Ora però immaginavo che potesse trattarsi di una nuova arma, forse antigravitazionale o antiqualcosaltro, cioè antime.
Naturalmente me l’aspettavo. Infatti, dopo aver simulato di essere stato toccato, Girolamo si lasciò cadere, facendomi credere di essere ferito. Si era piegato sulle ginocchia, e aveva serrato i gomiti ai fianchi come per proteggersi dal dolore. Poi chinò anche il capo e lasciò penzolare le braccia quasi fosse prossimo al decesso. Una vile recitazione. Far abbassare la guardia all’avversario: in questo stava la slealtà del segreto. A quella scena mi sentii male, non avevo mai ucciso, né come Fracassa né come altro. Così, già lambito dall’avanguardia del più antico e grave rimorso, stavo per riporre la lama quando intuii che lui, da quella posizione, sarebbe scattato come una molla per colpirmi a morte. Altro che macchine e marchingegni d’altri mondi. L’Alieno aveva usato il trucco più antico: l’inganno.
Capii di esser morto!
Invocai la mia Isabella. Nell’ultimo secondo che precede la fine della vita, le mandai un bacio dedicandole la mia anima. Fu quella preghiera a salvarmi. Un piede del grosso verme che mi stava sotto e davanti, pronto a balzare come un cobra e a uccidermi, scivolò sul pavimento umido del cortile, rovinando la botta assassina e stendendo il suo inventore. La spada gli sfuggì e Girolamo cadde ai miei piedi con il collo sotto la mia spada, come era avvenuto al suo degno allievo Lampourde! Dovevo la mia vita a quell’insolita pioggia lombarda che aveva reso la strada viscida come bava di lumaca.
- Non uccidermi - implorò - ti prego! Vengo da troppo lontano, per morire di narrativa.
Non so cosa stessi per rispondere o fare, quando sentii la mia Isabella chiamarmi a gran voce. Dimenticandomi dell’Avversario le corsi incontro felice per raccontarle l’esito del duello.
- Isabella! - sospirai abbracciandola forte.
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