Un romanzo denso, non si può definire altrimenti.
Parliamo di Piove All'Insù di Luca Rastello, editore Bollati Boringhieri. Non è un romanzo di fantascienza, ma la fantascienza lo percorre come un fil rouge a partire dall'incipit dove il protagonista decide di consolare la sua donna licenziata raccontandole di quattro Urania che non esita a definire sia "libri veri, con dentro i valori e i sogni di quel tempo", ma anche simili ad "un tipo che non capisci più, che t'imbarazza, ma che ogni tanto sarebbe bello rincontrare per fare quattro chiacchiere" e da questi Urania scaturisce la memoria di quegli anni, del suo crescere ed esplorare vita, sesso, impegno politico e conflitto generazionale. Ed è di questo che vogliamo parlare con l'autore, iniziando proprio dalle copertine.
Per quelli che sono nati negli anni sessanta gli Urania bianchi con le copertine di Karel Thole sono stati "la" fantascienza che in qualche modo ci ha regalato l'uscita di sicurezza per sopravvivere negli anni.
Sì, sono state un assillo della mia infanzia: avevo uno zio giovane che leggeva fantascienza in dosi massicce e accumulava a casa della nonna con cui viveva pile e pile di Urania. Bene, a me facevano una paura terribile quelle copertine, non so dire perché ma ho scoperto che qualcosa di simile è accaduto anche ad altre persone che conosco. Per alcuni l'effetto è stato quello di allontanarli per sempre dalla fantascienza, a me temo abbiano invece instillato una sorta di curiosità morbosa e un po' inorridita. Un po' come quella che spinge gli adolescenti alla passione per l'horror (che tra l'altro io non ho mai avuto) o a certe esperienze psichedeliche che richiedono di invertire la percezione, trasformando in piacere qualcosa che inizialmente respinge e disgusta. Per fortuna io ho esaurito in gran parte questa esperienza nel riappropriarmi delle (splendide!) copertine di Thole, senza bisogno di cercare troppe emozioni chimiche. In ogni caso l'effetto che facevano quei disegni era di indicare altre possibilità sotto il mantello della realtà quotidiana, di alludere ad altro da quello che è normalmente percepito. Una specie di iniziazione all'universo simbolico che precede ogni avventura narrativa.
Proseguiamo per associazioni...io dico: Fantascienza...
E a me viene in mente la frase "Un altro mondo è possibile", anche se associata a un significato più sfuggente e ampio (magari a costo di superficialità) di quello dello slogan new global. Poi, sempre per associazioni potrei dire "mele renette" (le mangiavo leggendo Urania a pancia in giù e le due sensazioni, fantascienza e renette, sono per me ormai inscindibili, una richiama sempre l'altra) e poi anche "rivoluzione", per le ragioni che racconta Piove all'insù, per via di un'epoca in cui sembrava davvero possibile rovesciare e cambiare ogni cosa, e nell'attesa leggevamo fantascienza, nutrivamo la nostra critica del mondo con la fantasia infinita delle space opera o della psichedelia alla Sheckley.
Tra gli autori che vengono fuori nel romanzo ci sono Trout, Sheckley e Asimov, sono solo questi i tuoi preferiti o ce ne sono altri?
Questi innanzitutto, certo, ma anche altri non citati. A partire da Ursula LeGuin, di cui però non ho seguito l'evoluzione "fantasy", da Michael Moorcock che ha anche lui avuto un'evoluzione in quella direzione, ma che trent'anni fa proponeva scenari allucinati e allucinatori che mi sembravano innovativi e irritanti come volevamo essere noi, piccoli ribelli confusi. E anche Silverberg, uno dei più radicali. E Dick, ovviamente, che sta fra i grandi autori del 900, indipendentemente dal genere. Ubik è una delle scoperte più sconcertanti possibili per un lettore dilettante come me. E poi mi sono sempre piaciute da matti le grandi space opera, i kolossal alla Heinlein o alla Van Vogt, adoro i balzi nell'iperspazio e le battaglie spaziali, anche le più ingenue ma senza dimenticare romanzi di altra ambientazione come Gli Uomini Nei Muri, di William Tenn, una vera parabola della vita moderna. Mi sono molto divertito di recente con un libro intitolato Universo Incostante di cui non ricordo l'autore [Vernor Vinge, ndr], ma che dava soddisfazione a tutte queste passioni un po' perverse...
E torna il discorso “perversione”, “irregolarità” nei confronti del leggere e desiderare fantascienza, una sensazione che per anni ha accompagnato tanti di noi lettori e appassionati... ma perchè?
Mah, non so. Certo che a lungo chi ha amato la fantascienza lo ha fatto quasi di nascosto, lo ha coltivato come un vizio. Penso ancora a quel mio zio di cui ti parlavo prima: lui era quello "strano" di famiglia, guardato un po' di sbieco dalle sorelle borghesi e il suo fascino maledetto, per me bambino, emanava anche da quelle letture etrodosse. C'era una specie di anatema, tipo "Vabbè, se proprio vuoi leggi quella roba, ma almeno vergognatene un po'". Stavano sulle stesse bancarelle dove gli uomini soli andavano a cercarsi emozioni erotiche a buon prezzo... In fondo anche noi appassionati abbiamo recuperato soltanto a posteriori, tornandoci su nei decenni successivi, la consapevolezza della carica di critica sociale e di profondità (oltre che di qualità letteraria) di tanta fantascienza anni '70. Magari per noi dei '70 è anche uno strascico della soggezione che provavamo nei confronti dei "militanti severi", quelli che leggevano Lenin, per capirci...
Anni di Piombo - se vogliamo accettare questa definizione - e Fantascienza, un po' anche come psichedelia, non so perché ma mi vengono in mente i Pink Floyd... la musica e i romanzi, erano portelli di salvataggio per scappare o supporti vitali per andare avanti?
No, no: sicuramente per andare avanti. La frase "anni di piombo" per me è sempre stata come il coperchio, plumbeo appunto, di una bara calato su quegli anni, sepolti vivi in una definizione impropria e impoverente. Non erano anni da cui fuggire, erano anni in cui eravamo convinti di costruire e musica, romanzi, ogni operazione di tipo fantastico, servivano a rafforzare le impalcature di quei nostri sbilenchi cantieri di un mondo diverso. La rimozione è venuta dopo, la tragedia dell'eroina di massa, del terrorismo, e successivamente la voglia ideologica, frettolosa, anche opportunista di rimuovere il passato, liquidarlo come un incubo, un errore, una follia di gioventù. Chiuderlo in definizioni limitative, appunto. E magari stare alla larga dagli Urania, residuo imbarazzante di certe libertà mentali che dopo ci apparivano ingenue, costretti come siamo stati - come siamo - al realismo edonista del "tutto qui e tutto subito" dell'iperconsumismo.
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