Giocare a Dreamfall è un po’ come leggere un libro e guardare un film, ma in definitiva nessuna delle due cose. Nella sua opera di ridefinizione dell’avventura digitale, la norvegese Funcom prende in prestito da cinema e letteratura diversi accorgimenti, che si palesano in più occasioni sfogliando i capitoli del seguito di The Longest Journey. Oggi come allora, il cuore del videogame è la storia. Ma oggi più che allora, la ricerca è sul racconto. Dreamfall: The Longest Journey narra l’odissea di Zoë, ventenne di Casablanca, sulla punta dell’Africa di un futuro ribaltato che vede proprio nel nostro terzo mondo l’asse economico del 23° secolo. È in un mattino del 2219, su un tecnologico remix paesaggistico di architetture maghrebine, che il giocatore apre gli occhi per la prima volta. Quella che attende Zoë, il suo avatar, il personaggio tramite cui entrare nella vicenda, sembra una giornata tranquilla. Più che altro è una giornata pensierosa come tante da un po’ di tempo. Zoë sta attraversando un periodo di riflessione. L’università, l’amore, le amicizie, la famiglia. Ogni aspetto della sua vita è tormentato da domande. Domande alle quali Zoë fatica a dare risposta. A malincuore – è strano, ma capita spesso così – questa situazione l’ha allontanata anche dal fidanzato, un giovane giornalista che pare avere fra le mani qualcosa di scottante e bisogno del suo aiuto. Intanto la grande Rete a cui tutti sono collegati continua a subire misteriosi blackout e la Waticorp, che ha creato i giocattoli robotici più di successo degli ultimi duecento anni, è pronta a lanciare sul mercato un prodotto di intrattenimento rivoluzionario, destinato ad arrivare in ogni casa.
Non ci vuole molto perché Dreamfall: The Longest Journey si tinga di thriller, avvolto nelle nubi fosche della fantapolitica e delle cospirazioni, sceneggiato a partire da scenari contemporanei, utilizzando una lente critica e speculativa. Tra alti e bassi, dal terrorismo agli incubi high tech, dalle libertà annullate alle menzogne di stato, dall’occupazione ai diritti violati, dalla scienza alle religioni. Il lungo viaggio di Zoë, tuttavia, ha soprattutto un carattere intimo e psicologico, con gli autori del videogame che si rivelano particolarmente abili nel tratteggiare la sensibilità dei loro personaggi. La rocambolesca avventura della ragazza di Casablanca si incrocia con le peregrinazioni di altri due attori fondamentali nella storia: April Ryan, già protagonista del primo The Longest Journey, e Kian, entrambi rappresentanti di due differenti prospettive sull’esistenza. Dualismi che si respirano in tutto l’universo di Dreamfall, dove al futuristico mondo di Stark, ipotetica Terra fantascientifica di domani, si contrappone la dimensione magica di Arcadia, legata a stilemi fantasy.
Il grosso del lavoro di Funcom, che dispiega sul tavolo del digital entertainment tematiche delicate e importanti, alcune (gli incubi high tech o lo slancio a ricercare qualcosa in cui credere e per cui valga la pena combattere) sviluppate meglio di altre (i riferimenti alle tensioni del dopoguerra in Iraq), è rivolto a non appesantire eccessivamente la struttura del racconto. L’elemento che maggiormente ne ha fatto le spese è l’interattività. In Dreamfall c’è molto da ascoltare e da vedere; poco da fare. Inoltre, mentre l’ambiente e l’intreccio funzionano, quello da fare non è nemmeno un granché. Guardato con gli occhi di un avventuriero, il videogame Funcom snocciola enigmi elementari a base di oggetti e situazioni, qualche puzzle non fantasioso e una manciata di fasi di azione (sgattaiolare o battibecchi a suon di calci e pugni) tanto imbarazzanti quanto inutilmente invasive. La questione è che Dreamfall non andrebbe visto coi soliti occhi e nelle solite categorie. Nel suo insieme, nonostante la linearità, il titolo Funcom instilla nel giocatore un’intrigante illusione di indipendenza dai legacci dell’autore, che riesce a guidarlo con eccezionale naturalezza, facendogli credere che le sue scelte siano anche quelle del primo; che si stia vivendo, e non semplicemente assistendo, le vicessitudini di Zoë. Giocando non si ha modo di modificare realmente la storia. Ma si può decidere un proprio grado di consapevolezza e, anche se le deviazioni non abbondano, ad esempio optando per un dialogo o un altro, le proprie sfumature nell’itinerario.
A osservare più accuratamente l’opera di Funcom, l’idea è che l’interattività, vera o presunta, debba essere quindi un elemento celato nel videogame. In tal senso, il gruppo norvegese assume una posizione interessante. Purtroppo però, se da una parte Dreamfall dimostra la volontà di cercare nuove vie, dall’altra i suoi autori non sempre sembrano capaci di perseguirle con coraggio e l’altra interattività, quella esibita, risulta un po’ svilita quando non pasticciata. Quasi sia messa per accontentare qualcuno. Chissà chi. In attesa dell’ultimo capitolo della trilogia e che, si spera, tutti gli interrogativi rimasti insoluti nel secondo The Longest Journey trovino una spiegazione coerente, Dreamfall è comunque un viaggio coinvolgente ed emozionante, uno dei più tangibili si possano fare col virtuale, che oltre a divertire prova a riflettere, con la chiave di lettura del fantastico, sui problemi di oggi e ammonire su quelli di domani. Che si interroga su come si possa raccontare una storia complessa utilizzando il piccolo schermo del computer e delle console. E, proprio come Zoë (una ragazzina che merita di essere ricordata), non ha ancora una risposta. Però la cerca e be’, se non lo si seziona ma ci si limita a farsi accompagnare con passione nell’avventura, qualche intuizione è arrivata.
Una nota tecnica, a parte la ricercatezza stilistica delle scenografie digitali, la meritano doppiaggio e commento sonoro. L’edizione distribuita nel nostro paese da Blue Label Entertainment affianca all’originale inglese un ottimo parlato in italiano, che non fa rimpiangere le produzioni televisive. Esiste inoltre la possibilità di visualizzare sottotitoli in entrambe le lingue. Non è poco, dato che in Dreamfall la parola ha un valore enorme.
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