Attraverso il pavimento della vettura che schizzava velocissima sulla monorotaia, si poteva avvertire solo una leggera vibrazione. Non si coglieva alcuna percezione di movimento, dato che le pareti del tunnel scorrevano a una velocità tale che non era possibile vederle. I passeggeri, tutti infilati in linde uniformi con bottoni e mostrine scintillanti, dondolavano pigramente nelle loro poltroncine, sballottati dal movimento della vettura; erano tutti sprofondati nei loro pensieri o in serrate conversazioni appena bisbigliate.
Sopra di loro, centinaia di metri di solida roccia li tenevano lontano dalla guerra. A una velocità di circa 230 chilometri all’ora, la vettura stava conducendo il generale Pere e i membri del suo staff al loro quartier generale.
Quando risuonò l’allarme, il conducente del convoglio spinse a fondo corsa i freni e bloccò il motore. Ma ormai era troppo tardi. Alla massima velocità, il proiettile di metallo in cui si era trasformata la vettura andò a schiantarsi contro la barriera di rocce e terriccio che ostruiva il tunnel. Le lamiere di acciaio si piegarono e si accartocciarono nell’impatto, mentre il veicolo finalmente si fermava. Le luci si spensero, e nel silenzio che seguì il fragore terrificante dello schianto, si udì solo un debole lamento.
All’interno del convoglio, il generale Pere si rialzò, districandosi da ciò che restava della sua poltroncina. Scosse la testa come se volesse schiarirsi la vista, e accese una torcia elettrica. Il raggio di luce danzò nervosamente per tutta la lunghezza della vettura, facendo scintillare la polvere in sospensione e illuminando i volti pallidi e terrorizzati del suo stato maggiore.
– Rapporto vittime – ordinò al suo attendente, a voce abbastanza bassa da riuscire a nasconderne il tremito. Non è facile comportarsi da generale quando si hanno solo diciannove anni. Pere si sforzò di restare immobile mentre il suo attendente-robot di metallo nero si muoveva rapido lungo il corridoio della vettura.
I sedili erano ancorati saldamente al pavimento e rivolti verso il fondo, così si poteva sperare che non ci fossero troppe vittime. Alle spalle dell’ultima fila di poltroncine c’era un ammasso di detriti che era penetrato all’interno da uno squarcio della paratia anteriore. Era evidente che il conducente non ce l’aveva fatta e giaceva là sotto; privo di vita, se gli era andata bene. Se non altro si era salvato dalla corte marziale.
– Un morto, un disperso e un ferito, per un totale di forza attiva che al momento conta diciassette unità. – L’attendente lasciò cadere il saluto militare e restò sull’attenti, in attesa di ulteriori ordini.
Il generale Pere si morse nervosamente un labbro.
Il disperso doveva essere il conducente. Presunto morto. Dannatamente morto. Così come la vittima certificata, che era il nuovo capitano arrivato dal Controllo Intercettori. Quel disgraziato aveva avuto la sfortuna di sporgersi oltre la sua poltroncina proprio nel momento dell’impatto. Il collo gli era stato spezzato dalla sommità del sedile, e adesso la sua testa pendeva con un’angolazione impossibile.
Quello che si lamentava doveva essere il ferito, e al momento quell’uomo era la priorità di cui Pere doveva occuparsi. Attraversò il corridoio della vettura e illuminò con la torcia il volto pallido e imperlato di sudore del colonnello Zen.
– Il braccio, signore – ansimò il colonnello.– Lo avevo allungato all’infuori quando c’è stato l’impatto. Il braccio mi è schizzato all’indietro e ha colpito lo spigolo di metallo. Penso si sia rotto. Il dolore...
– Va bene, colonnello, ho capito – l’interruppe Pere. Aveva parlato con tono un po’ troppo alto, perché la paura che trapelava dalla voce di quell’uomo aveva cominciato a insinuarsi anche dentro di lui. In quel momento avvertì un rumore di passi sopraggiungere dal corridoio, e il suo secondo in comando, il generale Natia, lo raggiunse.
– Lei ha fatto il corso standard di primo soccorso, vero generale? – chiese Pere. – Soccorra quest’uomo e poi mi riferisca.
– Certo, signore – annuì il generale Natia, nella cui voce echeggiava la stessa nota di paura che aveva vibrato nelle parole di Pere.
Maledizione, pensò questi. Dovrebbe saperlo che questo non è il modo di comportarsi per un generale. Non dobbiamo lasciar credere ai nostri uomini che abbiamo paura... neppure se la proviamo veramente.
Non si preoccupò di considerare, a discolpa del generale Natia, il fatto che fosse una donna e che avesse solo diciotto anni.
Ora che si era preso cura dei suoi uomini, poteva rivolgere l’attenzione della sua mente verso altri tipi di problemi. S’irrigidì leggermente quando considerò tutti i fattori in campo.
La sua specialità era la risoluzione dei problemi, era stato selezionato per questo fin da prima della nascita. L’analisi genetica aveva isolato le migliori combinazioni di DNA dalla banca di spermatozoi e ovuli dei suoi genitori. Questo, e l’addestramento successivo alla nascita, l’avevano reso perfetto per il comando. Oltretutto, grazie alla prontezza di riflessi garantita dalla sua giovane età, Pere diventava un oppositore formidabile sui campi di battaglia, e poteva dunque guardare con fiducia al futuro, che l’avrebbe visto protagonista di una carriera di successo che sarebbe durata almeno quattro o cinque anni, prima del ritiro.
Per un uomo che era sul punto di dirigere un conflitto mondiale, quello che gli si presentava ora era un problema di semplicità elementare.
– Comunicazioni! – gridò di scatto, puntando un dito verso l’ufficiale responsabile dei collegamenti. La sua voce aveva assunto automaticamente un tono autoritario, in evidente contrasto con l’aspetto fanciullesco e lentigginoso.
– Niente da fare, signore L’ostruzione del tunnel ha messo fuori uso anche le linee di comunicazione. – Rispose l’ufficiale. – Ho cercato di stabilire un contatto con il telefono da campo, ma non c’è segnale.
– Qualcuno ha idea di quanto siamo distanti dal quartier generale? – chiese Pere, alzando la voce in modo che tutti gli ufficiali presenti nella vettura potessero udirlo.
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