La prima cosa che si nota di Black è che si imbracciano le armi. Ok, si tratta di uno sparatutto 3D in soggettiva e che una porzione dello schermo sia occupata dal fucile non dovrebbe stupire più di tanto. Eppure va così, sembra di tenere veramente in mano severi, scuri, potenti aggeggi di metallo. La seconda cosa che si nota di Black è che, quando il cervello manda un impulso nervoso all’indice destro per premere il grilletto del pad e sparare, si sente come un brivido elettrico in corpo. Certo, fisiologicamente funziona circa in questo modo, ma dal saperlo al percepirlo passano mari e monti. La terza cosa che si nota di Black è che scaricare fiumi di piombo con un videogioco può essere un’esperienza fisica, si può cogliere anche virtualmente l'energia del colpo. La quarta cosa che si nota di Black è che il complesso scenografico allestito per un titolo dove si va avanti e si spara, punto e basta, è quasi sovradimensionato. Tutto ciò lo si realizza in una frazione di secondo, perché poi si viene catapultati dal rinculo alla cosa zero che si nota di Black: non si fa in tempo a scindere singolarmente i colori del gioco che si è travolti da una confusione di stimoli audiovisivi. Un’enorme messa in scena di acciaio temperato, barili di cherosene e detriti sparsi per il cielo. Scheletriche architetture e tetri panorami urbani si fondono coi proiettili e le esplosioni in una dissolvenza in nero. Quel battito di ciglia prolungato se, al posto che in un videogioco, si sparasse per davvero. Se, al posto che in un bailamme digitale alla Hollywood di True Lies o Last Action Hero, si sperimentassero sulla pelle gli attimi di silenzio nel rumore assordante di una M249 SPW, da settecentocinquanta colpi al minuto diretti verso il proprio, ora assolutamente inconsistente, riparo.
Black è il nuovo blockbuster di Criterion, gli autori di Burnout, i reinventori dello spettacolo arcade. La trama è la sfumatura più esterna del calderone. C’è un soldato apparentemente poco incline alla disciplina e siete voi. Ci sono dei terroristi. Ci sono delle missioni che bisogna fare come se non ci fossero mai state. Ci sono doppiogiochisti, complotti, errori di valutazione e interessi più importanti della giustizia e della legge. Il pozzo da cui gli autori di Black attingono senza grosse pretese è quello del thriller fantapolitico contemporaneo, coi rimandi ai telegiornali, a ciò che potrebbe esserci dietro se “non esistessero coincidenze”. In realtà, sebbene annunciato come primo tassello di una trilogia, quello che vuole dire Black non è molto chiaro o, più verosimilmente, non è di particolare importanza. Il fulcro del lavoro Criterion è l’azione piuttosto che la storia, elemento accessorio a tutto il resto così come si era soliti pensare un tempo. Più o meno. Dopo Burnout, anche Black è infatti un ritorno alle origini del divertimento elettronico, senza fingere che gli anni non siano passati sotto i ponti di un’evoluzione ludica e tecnologica incessante. Il soggetto del videogame sono le armi e la distruzione che con esse si può perpetrare per i livelli di gioco. Tranne alcune brevi situazioni in cui è consigliato privilegiare l’approccio furtivo e il basso profilo, Black è avaro di variazioni sul tema dello sparatutto, che riassume il significato letterale dell’archetipo del genere. Ciò non vuol dire la produzione Criterion manchi di tattica, o meglio di precise logiche interne e di una certa profondità. Ogni elemento di Black è parte integrante di un meticoloso sistema di gioco, che privilegia lo spettacolo e si impegna a valorizzare un ruolo importantissimo in un videogame dove si spara: quello del proiettile. Fucili automatici e proiettili sono le vere star del blockbuster Criterion. I primi sono realizzati con estrema cura e godono dello stesso narcisismo estetico di una produzione molto cara - nonostante i limiti - all’utenza PlayStation 2, ossia Killzone. Anche in Black la ricarica dell’arma è un momento topico dell’azione, con l’occhio che per interminabili attimi si sofferma sulla procedura di sgancio-aggancio del caricatore, mandando fuori fuoco il mondo attorno, quello in cui si nascondono i nemici e da dove provengono metallici messaggi di morte lanciati nella propria direzione. Tuttavia non è solo un vezzo o l’escamotage per donare al videogame coinvolgimento e autenticità superiori. I tempi di ricarica sottolineati e dilatati costringono a tenere in debita considerazione un aspetto secondario e lo elevano a importante variabile ritmica di gioco, assieme alla specificità di pistole e fucili (a pompa, uzi, ak, mp5, ecc.), il cui trasporto simultaneo è strategicamente limitato a due. Poi ci si accorge che il grande protagonista di Black sono i proiettili. Il loro viaggio verso il bersaglio. La loro consistenza che permette di giostrare piogge di piombo di sponda, attraverso, diritto, storto, di rimbalzo come se le battaglie fossero partite di bigliardo con una palla, nessuna, centomila. Il loro impatto sullo scenario, costruito apposta per dar vita a coreografie di immagini e rumore. In Black tutto o quasi è distruttibile, penetrabile, plasmabile con violenza. A volte per davvero, in una rigorosa sequela di tessere di domino da abbattere vicendevolmente, in una combinazione esplosiva. Spesso per finta, per alzare i decibel di scintille, fumo e pareti frastagliate seguendo il copione di un action movie. Facendosi largo tra l'aria caliginosa. L’ultima evoluzione del renderware, il motore grafico di Criterion (sbalorditivo alla vista nonostante i compromessi nascosti con l’abilità di una delle società tecnicamente più all’avanguardia), strabilia con una miriade di trucchi ed effetti speciali quasi ci si trovasse sul set di una pellicola dal budget apparentemente illimitato. Per la quale apparire conta almeno quanto essere, anzi di più. Nella stessa ottica è inquadrata la fotografia, intensa come raramente la si è osservata in un videogame. E la direzione artistica alla base dei livelli, dove sarà pur vero che si va solo avanti (ma frequentemente scegliendo tra destra e sinistra, sopra e sotto) e si continua semplicemente a sparare (addirittura per aprire le porte; non esiste il tasto “azione”, così come non esiste il tasto "salto" e non si può cadere per – opportunistiche? - scelte arcade di linearità e leggibilità), ma su console ha un particolareggiato, sporco, vissuto valore assoluto.
È tutto oro nero quello che luccica accompagnato dall'efficace colonna sonora di Michael Giacchino? No. Perché seppur intenso, Black è un’emozione breve. Un distillato di azione omogeneizzata, che scorre rapida per la decina scarsa di missioni di cui è composta. Nessuna modalità accessoria per rimpinzare la pietanza, neanche il multiplayer che sarà invece, molto probabilmente, una delle future derive della serie. A far girare di nuovo il dvd di Black nel tray per i più smaliziati potrebbero essere le statistiche, raccolte in un apposito menu che sussurra di sfidare se stessi, scaricando ancora caricatori contro i bersagli, mezzi manichini ultraresistenti che sembrano bere piombo a colazione. Oppure la voglia di elaborare sequenze mitiche di sparatorie sempre più gigantesche e sproporzionate, di esagerare esattamente come in un film di Hollywood nel quale le misure sono importanti. Ecco: Black è il videogame di cui Hollywood ha paura o dovrebbe incominciare ad averne. A meno che l’industria cinematografica americana non corregga il tiro e guardi meglio la sostanza, l’adrenalina passerà sempre più dal digitale. Il messaggio suggerito da produzioni come quella Criterion è chiaro: stiamo arrivando. I blockbuster pirotecnici sono avvisati. L’intrattenimento tutto effetti speciali ed esplosioni ha aperto le porte a una nuova dimensione: l’interattività. E mentre le meraviglie grafiche crescono, per le nuove generazioni sarà difficile tornare indietro. Che siano suonati anche da Black alcuni rintocchi della marcia funebre al cinema popcorn?
Black
Immagini del gioco
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