“…e la bestia fissò in volto la bella ma si trattenne dall’ucciderla, e da quel giorno fu come fosse morta.” Antico proverbio arabo
Così come avviene per gli esseri umani, anche in campo cinematografico ci sono dei film che invecchiano bene e altri che invecchiano male. King Kong, anno 1933, prodotto e diretto a quattro mani da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, appartiene certamente alla prima categoria. Vuoi per la semplice e geniale semplicità della trama, rilettura ingigantita dell’immortale mito della bella e la bestia, vuoi per la passione che i cineasti che lo realizzarono ci misero nel farlo, vuoi per la fantastica creatività degli effetti speciali, allora stato dell’arte e ancora oggi in grado di suscitare ammirazione. Si può tranquillamente affermare che King Kong è uno dei grandi film-mito della storia del cinema.
L’inizio è notturno e d’atmosfera, su un’oscura e nebbiosa banchina del porto di New York. “Anche voi andate con quei pazzi?” chiede uno dei portuali al nuovo arrivato che sale a bordo della Venture. I pazzi sono i membri della troupe del produttore cinematografico Carl Denham (l’attore Robert Armstrong), specializzato in film d’avventura tra le bestie della giungla. Denham è in procinto di salpare per andare a girare una nuova pellicola, ma a poche ore dalla partenza non ha ancora trovato la protagonista. Il pubblico vuole un bel faccino, e lui si mette a cercarlo per le strade della città, negli anni della grande depressione. Assiste per caso al furto di una mela da parte della bella e affamata Ann Darrow (Fay Wray) e capisce di aver trovato il volto che andava cercando. L’avventura può cominciare, la nave può salpare. Dopo sei settimane di navigazione l’imbarcazione si avvicina a Skull Island, l’isola del teschio, nascosta alla vista da un fitto banco di nebbia. C’è la leggenda che sia abitata da un mostro gigantesco, ne bestia ne uomo, e sul ponte il regista fa provare ad Ann l’avvistamento di qualcosa di enorme e mostruoso. Sbarcati, i membri dell’equipaggio notano un altissimo muro che sovrasta il villaggio nel quale vive la tribù d’indigeni, impegnata in danze tribali al ritmo di tamburi martellanti. Tra un “bala bala” (amici) e l’altro si apprende che si sta preparando una cerimonia sacrificale, ai danni di una femmina locale. Gli occhi del capo stregone sono immediatamente attratti dalla bionda Ann, che infatti quella notte viene rapita dalla nave, lasciata all’ancora non troppo lontano dalla costa, e legata subito al di fuori della muraglia protettiva. La donna si rivela essere il regalo perfetto per Kong, che infatti di li a poco emerge dalla foresta e se la porta via…
Siamo a quasi 40 minuti dall’inizio, questa è prima apparizione di Kong, il cui rumoroso avvicinamento nascosto dagli alberi della foresta è di grande impatto emotivo, al punto da essere preso a modello ancora oggi sia al cinema (ad esempio in Jurassic Park) che in TV (si pensi al pilot di Lost). Il gorilla gigante nella finzione è alto più o meno 15 metri, nella realtà si trattava di un modellino snodabile alto una circa 45 centimetri, con uno scheletro interno in metallo, muscolatura di gomma e rivestito di una pelliccia di pelo di coniglio. I modelli erano tre, per riprese su scala diversa, e furono costruiti dal tecnico Marcel Delgado. Per i campi lunghi veniva utilizzato uno di questi semplici e al tempo stesso complicatissimi pupazzi, animato a passo uno, o stop motion, ovvero cambiandone a poco a poco la posizione per ogni fotogramma impresso. Un lavoro lunghissimo e certosino, versione tridimensionale della stessa tecnica con la quale vengono realizzati i cartoni animati classici.
Il mago degli effetti speciali a cui si deve la riuscita di questa piccola/grande creazione era Willis J. O’Brien, che già negli anni ‘10 si era andato affermando come il migliore tecnico-artista nel campo, e che già nel 1925 aveva creato le creature preistoriche che abitavano il Mondo Perduto (The lost world), basato sul romanzo di Arthur Conan Doyle. Il modellino del gorilla veniva utilizzato per i campi lunghi mentre per i primi piani venne costruita una grande testa, ricoperta da pelli d’orso e animata da pistoni ad aria compressa, che poteva aprire e chiudere le mascelle e ruotare gli occhi, ciascuno dei quali aveva un diametro di mezzo metro. Anche una grossa mano a grandezza naturale fu costruita, manovrata da tecnici fuori campo e che serviva per le scene nella quali Ann era tenuta in mano da Kong. A bordo della nave ci si accorge che Ann è scomparsa e i membri dell’equipaggio si dirigono in tutta fretta a riva. La tribù è frenetica, l’isola è illuminata da centinaia di fiaccole, uno splendido bianco e nero pieno di contrasti, straordinario lavoro del direttore della fotografia (in tre lavorarono al film Edward Linden, J.O. Taylor e Vernon Walker). Un gruppetto dell’equipaggio si lancia all’inseguimento, mettendosi sulle tracce del gorillone, le cui impronte sono facilmente visibili. Scoprono ben presto che sull’isola vivono ancora creature preistoriche.
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