A volte succede. Un attore viene chiamato per una particina, roba che non basta nemmeno a pagare la bolletta del telefono, il programma ha successo, l’attore “buca il video” e la porticina si trasforma nel ruolo della vita. Correva l’anno unsaccoditempofa, almeno prima del 1999. Io e Vittorio Curtoni c’eravamo conosciuti su una mailing list e dopo un po’, avendo saputo che scrivevo, mi aveva chiesto di mandargli qualcosa di mio, soltanto per curiosità, la rinascita di Robot era infatti ancora da venire. Oltre a un paio di racconti vecchi usciti su fanzine, gli mandai un racconto che non aveva neppure il titolo, completamente inedito e scritto da pochi mesi, nemmeno ripulito. Si parlava di un servizio segreto temporale italiano. E come poteva essere un servizio segreto temporale se non ambiguo? E un servizio segreto temporale italiano? Ambiguo, burocratico, ministeriale. Insomma, il racconto con qualche piccola ingenuità (il Vecchio veniva chiamato il Grande Vecchio, in riferimento al Grande Vecchio che all’epoca si vociferava che fosse dietro tutti i complotti), corrispondeva grosso modo ai primi due capitoli di quello che poi sarebbe divenuto Lungo i vicoli del tempo. Curtoni, a parte lo stile farraginoso, gradì molto il racconto, gli piacque in particolare il ritratto dell’Ufficio che veniva fatto in poche cartelle e apprezzò la garbata presa in giro delle varie polizie temporali che si erano succedute nel corso della storia della fantascienza.
Alle origini del tempo...
Nella sezione racconti pubblichiamo il racconto I quadrivi del tempo, la primissima apparizioni del Vecchio, di Mariani e dell'UCCI, che poi si sarebbe evoluto diventando il romanzo Lungo i vicoli del tempo. Leggi il racconto: www.fantascienza.com/magazine/racconti/6988
La cosa finì lì, ma in qualche modo quell’apprezzamento mise in moto le cellule grigie (le poche rimaste). I personaggi continuarono a parlottare tra loro: da una scenetta da sit com di venti minuti cominciarono a uscire fuori altre scene. Ognuno voleva dire la sua e i tre personaggi, Mariani, all’epoca ancora senza nome, il Vecchio e la segretaria del Vecchio, pur mantenendo i loro caratteri inalterati si approfondirono e assunsero sfaccettature insospettate. Cominciarono a muoversi all’interno della storia e la storia dal canto suo iniziò a modificarsi quasi impercettibilmente. All’inizio Federico II era soltanto un accenno. Ma dove si potevano imboscare dei fondi sottratti illecitamente per farli fruttare? Presso i Fugger, e leggendo sulla Treccani si scopre che i Fugger operavano ad Augusta. Ma Augusta veniva definita la Firenze del Nord, e poi leggendo di Augusta si scopriva che aveva avuto a che fare con Federico II, e quelle che sembravano componenti eterogenee iniziarono a saldarsi in una trama. Bastava scrivere una fine, perché senza fine non c’è svolgimento, e poi iniziare a riempire i vuoti.
Marina Savoldi invece si rivelò sin dal primo istante una spina nel fianco. Già alla prima scena si rifiutò di girarla come era scritta. “Il mio personaggio non può comportarsi così”, disse. E ogni volta che doveva fare o dire qualcosa, fedele al suo carattere di bastian contrario (l’unico che abbia accettato senza discussioni), doveva cambiarlo a suo modo. La sua frase favorita era: “Questa battuta non la dico nemmeno se mi ammazzi”, pensiero che presi in considerazione più e più volte. E quando si arrivò al conto delle battute scoppiò la tragedia: “La mia parte è troppo ridotta!”, “Io a fare soltanto la bambolona non ci sto!” “Non mi faccio mettere da parte così”. Poco ci mancò che mi piantasse una causa. Ogni volta che in macchina mi fermavo a un semaforo rosso lei iniziava con lo strazio e se ne usciva fuori con nuove scene e nuove battute (e Roma è piena di semafori rossi).
Alla fine arrivammo a un modus operandi di reciproca soddisfazione: lei faceva come le pareva, e io la lasciavo fare come le pareva. Naturalmente scene, pezzi di dialogo, battute, si moltiplicavano per soddisfare la prima donna, e si arrivò al momento in cui ci si rese conto che se non si voleva fare un romanzo di settecento pagine, e molti probabilmente l’avrebbero fatto, bisognava selezionare quello che era utile che andasse nel primo e destinare tutto il resto a un totalmente ipotetico secondo romanzo.
Poi, vista l’accoglienza lusinghiera di Lungo i vicoli del tempo da parte della giuria del Premio Urania e l’entrata in finale sin dalla prima presentazione, venne l’idea che sì, forse valeva la pena di iniziare a scrivere un secondo romanzo.
Però, se i personaggi dovevano dire qualcosa di nuovo di se stessi, non muoversi esattamente come nel primo, allora bisognava modificare i rapporti tra di loro, qualcuno doveva fare un passo indietro e qualcuno doveva farne uno avanti, o almeno fare un falso movimento. A quel punto serviva una storia, possibilmente sufficientemente complessa da non far rimpiangere quella del primo romanzo. E come al solito, serviva una battuta finale. Scritta la battuta finale, il romanzo poteva iniziare. Venne poi smontato più volte. Alcuni capitoli cambiarono di posto, oggetti vennero in primo piano, altri dovettero essere spinti sullo sfondo perché non si notassero troppo. Personaggi crebbero, altri vennero sfumati e di qualcuno si iniziò a raccontare la storia.
Un racconto, due romanzi, un terzo sul banco da lavoro: un pezzo di chiglia che al momento attuale, da disegni, non si capisce se è di un sottomarino, di uno yacht o di una corazzata a pedali. Nessuno, io per primo, avrebbe mai ipotizzato che poche cartelle, tre personaggi poi diventati quattro, avrebbero fatto tanta strada.
E comunque no, per l’ennesima volta no. Il gruppo TNT non c’entra per nulla.
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