4. La fantascienza con gli occhiali a specchio

Riprendendo il titolo di un oscuro racconto dell’oscuro Bruce Bethke (pubblicato su Amazing nel 1983), era stato l’editor Gardner Dozois - vecchia volpe della SF e grande promotore di questi autori come direttore di Asimov’s - a coniare nel 1985, in un articolo sul Washington Post, il termine cyberpunk. Ma il vero portavoce pubblico del cyberpunk era stato Sterling con l’antologia Mirrorshades (Bompiani e Urania collezione). Nel titolo all’antologia, il cyborg è un’immagine di rafforzamento, blindatura, durezza, impenetrabilità, in una celebrazione un po’ ingenua (o acritica?) della cultura del computer: “il biker, il rocker, il poliziotto e il fuorilegge” sono tutti uniti da quell’immagine degli occhiali a specchio, che permettono di guardare senza essere visti: lo sguardo va in una direzione sola, quella del futuro. Nel nome dell’aggressività, hacker e rockettari sono la “fonte di speranza” che sta trasformando la società degli anni 80. Senza disturbare le teorie dell’informatica (gli auspici inquietanti sulla consapevolezza downloaded su supporto elettronico) e della biologia (le visioni, a volte non meno inquietanti, della manipolazione assoluta del genoma, o della nanotecnologia), o le elaborazioni dei body artist, Sterling vede nella mitologia cyberpunk un’occasione per la rinascita della mitologia nazionale americana. E alcuni suoi autori, infatti, sono solo marginalmente collegabili al sottogenere. Possiamo comunque passarne in rassegna alcuni, a partire dai contemporanei di Gibson, e trascurando figure importanti ma marginali per il cyberpunk (come Lucius Shepard) o più legate alla hard SF come Greg Bear o Gregory Benford (che vi si avvicinano in qualche romanzo). Cominciamo col matematico Rudy Rucker, e il ciclo composto da Software (1982; Software, Phoenix), Wetware (1988; Wetware, Urania), Freeware (1997; Freeware, Urania), tre romanzi comici di un esperto di Intelligenza artificiale. Il confronto continuo fra umani e robot (boppers) è sempre nella prospettiva “evolutiva” dell’immortalità sotto forma di personalità computerizzata; d’altra parte il sogno dei robot è quello di poter sviluppare artificialmente una linea di componenti organici (wetware), costruendo a loro volta dei cyborg per potersi nuovamente “scaricare” su supporto organico. Altrettanto importante è John Shirley, con la trilogia di A Song Called Youth, una canzone chiamata gioventù, composta da Eclipse (1985; Eclipse, Urania), Eclipse Penumbra (1988; Azione al crepuscolo, Urania) e Eclipse Corona (1990; La maschera sul sole, Urania). Shirley vuole ricostruire un collegamento fra cultura della tecnologia e controcultura dell’anticonformismo, fra anni 80 e anni 60. L’eroe, rappresentante di un hard rock ormai fuori moda, diventa leader della resistenza che si oppone a una “Alleanza” fra estrema destra europea (fatta risalire anche alla nostrana “strategia della tensione”) e fondamentalismi statunitensi e islamici, un regime globale retto dagli interessi delle multinazionali della comunicazione e dell’informatica. Fra i primi a dare al cyberpunk una dimensione interplanetaria era stato Lewis Shiner con Frontera (1984), un romanzo dimenticato e mai tradotto in italiano che aveva scelto l’ambientazione marziana. Ugualmente e ingiustamente trascurato è The Vacuum Flowers (1987; L’intrigo wetware, Nord) di Michael Swanwick, sullo sfondo di un futuro in cui si scambiano, si vendono, si rubano “personalità”, in un sistema solare dove le intelligenze artificiali sono diventate una realtà. Se Gibson aveva (oculatamente) scelto il Giappone come elemento per la contaminazione culturale, il veterano George Alec Effinger sceglie il mondo arabo per la megalopoli in cui è ambientata la trilogia del Budayeen, composta da When Gravity Fails (1987; Senza tregua, Nord), A Fire in the Sun (1989; Programma Fenice, Nord) e The Exile Kiss (1991; Esilio dal Budayeen, Nord), a metà fra SF e giallo d’azione. Nella loro disincantata descrizione della società futura, queste storie rappresentano forse il meglio della prima generazione del cyberpunk. A esse possiamo aggiungere Little Heroes (1987) di Norman Spinrad, col tentativo di presentare un’alleanza fra mondo hacker, una superstite controcultura e i membri di un sottoproletariato urbano interrazziale.