1. Verso il cyberpunk
Tutto comincia con l’incipit più famoso della fantascienza (diventato presto uno degli incipit più famosi della letteratura americana: “Il cielo sopra il porto era del colore della televisione, sintonizzata su un canale morto”. Questa è la prima frase di Neuromante (Neuromancer, ed. it. Nord e Urania Collezione) di William Gibson, il romanzo che nel 1984 cambia il volto della fantascienza. Con quel romanzo, tante cose ripartono da zero. Non era un neofita William Gibson, né i temi e le immagini del suo libro venivano dal nulla. La forza di Neuromante sta nell’aver trovato la giusta combinazione degli ingredienti giusti, rafforzata da uno stile inimitabile, raffinato--la moda del cyberpunk può essere passata, ma il talento di un vero scrittore come Gibson non dipendeva da alcuna moda. Le metafore che reggono Neuromante erano in giro da tanto tempo (e troveremo il modo di parlarne): il cyborg, lo spazio “virtuale”, il computer, la città. L’immagine del cyborg (l’essere composito, che unisce corpo fisico e parti artificiali) aveva trovato una formulazione scientifica nel 1960, in un convegno texano sul volo spaziale, ma faceva parte del repertorio della SF almeno da una cinquantina d’anni: lo troviamo in C.L Moore, Alfred Bester, Robert A. Heinlein, Cordwainer Smith, fino al Palmer Eldritch di Dick, allo straordinario pilota spaziale di Nova di Delany e molti altri. Solo poco più recente era l’immagine dello spazio simulato (un territorio irreale, arena per rapporti interpersonali di ogni tipo), già presente in autori come Ray Bradbury, Frederik Pohl, e poi Daniel Galouye, Roger Zelazny, John Sladek, ecc., fino a un film come Tron. Il computer, lo sappiamo, aveva accompagnato la SF da sempre: quella scritta di Asimov, Ellison, ancora Bester, e così via; e quella visiva di 2001 Odissea nello spazio o di molti episodi di Star Trek. Quanto alla città, il futuro della vita urbana era stato una fondamentale preoccupazione della SF utopica e distopica, raggiungendo un vertice con la social science fiction degli anni 50--e poi negli anni 60 con Dick, Robert Silverberg e John Brunner.
Il cyberpunk, dunque, era nell’aria, pronto a emergere. Se si riprende in mano la SF scritta a partire dalla metà anni 70, l’elenco dei possibili “anticipatori” è sterminato. C’è la fantascienza femminista di Woman on the Edge of Time (1976; Sul filo del tempo, Eleuthera) di Marge Piercy e di The Female Man (1974; Female Man, Nord) di Joanna Russ: il cyborg femminista può essere forme di spossessamento o di liberazione--ma comunque pone al centro il rapporto fra fisicità e tecnologia. Ci sono i racconti e i romanzi di John Varley, pieni di corpi geneticamente e ciberneticamente modificati, di sguardi curiosi e scettici (né trionfalistici né disperati) al futuro di una terra e di un sistema solare in cui imperano le biotecnologie; merita la riscoperta, su Urania, l’antologia Bolle d’infinito, oltre a storie sparse come “Overdrawn at the Memory Bank” (1976; “La banca della memoria”, su Robot 30), con un antieroe (a cui il rimpianto Raul Julia diede una straordinaria interpretazione in un tv-movie di una decina di anni dopo) intrappolato in una simulazione computerizzata. C’è un curioso esperimento linguistico come The Void Captain’s Tale (1983; Astronavi nell’abisso, Urania) di Norman Spinrad, con la realtà virtuale come modo per sopravvivere all’orrore fisico e psichico del “vuoto” interstellare, in cui l’illusione di onnipotenza legata alla vertigine del “Balzo” spaziale (come spesso succede, si evoca il capitano Ahab di Moby-Dick) si risolve in tragedia.C’è City Come A-Walkin’ (1980; Il rock della città vivente, Urania) di John Shirley: sulle strade di una San Francisco cupissima dall’atmosfera punk (musica compresa), si compie la missione purificatrice della Città personificata, e il vendicatore City, dagli occhiali a specchio, è la figura più vicina all’umanità in un mondo disumano.
Ci sono, più semplicemente, romanzi avventurosi come quello che sto leggendo mentre finisco di scrivere questo articolo, War for Eternity (1983; Guerra per l’eternità, Nord) di Christopher Rowley in cui sullo sfondo dell’avventura aliena alla Jack Vance--insieme a una significativa inversione di molte aspettative sulla superiorità morale degli umani--si parla di chip, computer e potentissime corporation private, in un modo che anni prima non sarebbe stato possibile.
Il cambiamento in atto è più generale, ovviamente. Soprattutto, c’è un pubblico e--di conseguenza--una SF che comincia a ragionare sulla tecnologia in maniera diversa dal rifiuto nostalgico di tanta distopia anni 50 o da tanti sogni pastorali e precapitalistici legati alla controcultura anni 60. Anche senza un’accettazione supina dei nuovi rapporti di potere e interpersonali, non si può più tornare indietro. Questa è la consapevolezza che si sta imponendo definitivamente, e di cui è imbevuta gran parte degli autori che esordiscono intorno al 1980.
Intorno questa consapevolezza, crescerà un agglomerato teorico in cui il cyberpunk, il cyborg e lo spazio virtuale acquisiranno valenze più vaste, che faranno (in parte a ragione) pensare a un “movimento” al di là della letteratura; per alcuni, questo diffondersi a 360 gradi delle immagini della SF sarà occasione di elaborazioni sulla “morte della fantascienza”. Qui posso solo rimandare a una mia rassegna su questi scritti, Intorno al cyberpunk, uscita originariamente sulla rivista Ácoma (n. 12, 1998), e ora online su Intercom (2002):
www.intercom.publinet.it/2002/cyberpunk.htm.
A distanza di qualche anno, forse è tempo di ricordarci che stiamo parlando principalmente di fantascienza. E soprattutto di due scrittori: William Gibson e Bruce Sterling.
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