Quando le radici: Grazia Lipos
Grazia Lipos (nome completo: Maria Grazia Carini Lipos) è nata il 10 novembre 1945 a Trieste, dove vive e lavora...
C'è silenzio. I poliziotti se ne sono andati, ho dato un'occhiata dalla finestra. Forse ora sono seduti in un locale caldo, stanno bevendosi un caffè bollente, o una birra.
Siamo riusciti a portar qui un po' di scatolame preso al supermercato sul Bundesallee. La saracinesca era stata forzata, metà roba l'avevano già portata via, ma un reparto stranamente era tutto in ordine, certi scaffali erano pieni di generi non commestibili - detersivi, saponi e altro - così sembrava quasi normale, come prima della guerra. Max ha preso una saponetta, io questo quaderno su cui sto scrivendo, non so perché.
Dunque, potrei andare nell'altra stanza a prendermi una birra e una scatoletta di carne. Ma di là c'è Ahmed, mi chiamerà vicino e comincerà a farfugliare in turco. Io il turco non lo capisco. Ahmed da quando sta male pare si sia dimenticato il tedesco. Sta morendo, poveraccio. Potrebbe essere avvelenamento da radiazioni: Ahmed lavorava in una fabbrica su al nord, dove sono esplose le testate nucleari. Dicono che anche Berlino sia contaminata. Io non ci voglio credere.
O, anche se ho paura, preferisco morire qui che andare nei Campi. Appena la guerra è finita c'era da pensare a tutti gli sfollati, a quelli senza lavoro, e a quelli che venivano dalle zone "calde". Così hanno creato i Campi. Garantiscono assistenza, cibo, alloggio. Se non hai un lavoro sei obbligato ad andarci.
Allora noi - voglio dire tutti quelli a cui l'idea non andava giù e che erano abbastanza disperati - ci siamo rifiutati, e abbiamo occupato le case abbandonate (a Berlino ce ne sono molte, specialmente qui al Kreuzberg. Mezza città è andata giù con i bombardamenti). All'inizio si cercava di parlare di diritti, di libertà di scelta... chissà cosa speravamo, che senso avevano per noi quelle parole. Qualcuno che era stato al fronte si era tenuto le armi. Così è cominciata quella che i giornali chiamano la Piccola Guerra.
I giornali. Da quando sono con Max e Ahmed non ne ho letto uno. La televisione dell'appartamento di sotto - vuoto anche quello - forse funziona. Ma non m'importa.
Max l'hanno ammazzato prima che trovassimo questo appartamento, e Ahmed sta morendo. Per questo forse scrivo sul quaderno, quello che mi capita e quello che è successo prima, come lo ricordo. Per non parlare da solo.
Di notte la città è una nebulosa contro un cielo di carbone. Ci sono le luci delle case ancora abitate, ma non quelle delle strade né delle insegne. Sulle facciate dei palazzi bombardati scivolano le luci crude dei fari della polizia; nella strana dolcezza di questa città al buio, di questa Berlino che non conosco, mi sembra un atto di violenza.
Quando hanno ucciso Max eravamo quasi arrivati qui in Oranienstrasse. Io e Ahmed ci siamo nascosti in un cortile e abbiamo aspettato, sperando che ce la facesse a tirarsi su, poi Ahmed mi ha mostrato tutto quel sangue e ha detto qualcosa in turco. La macchina della polizia è passata oltre, hanno sparato un'altra raffica di mitra ma non ci hanno visti. Siamo rimasti là per un pezzo, un po' perché avevamo paura a muoverci, un po' perché non sapevamo se Max era già morto. Ho visto la luna venir fuori dalle nuvole sopra il cortile.
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