L'autrice si racconta
Bene, è tutta una storia di libri. Da quando ero bambina in casa mia hanno circolato i libri più vari: quelli di mia sorella, maggiore di me di nove anni, e poi quelli che capitavano e talvolta solo transitavano per casa nostra provenendo dalla biblioteca popolare e dalle rivendite di libri usati. Perciò ho sempre letto tantissimo, senza la minima selezione che non fosse quella dell'estro del momento e di un gusto che si è naturalmente modificato con gli anni. Attualmente ho in casa circa 12 metri di scaffali tutti pieni, e continuo a comperare libri e ad andare in biblioteca: amando dei libri anche l'aspetto e l'odore, non sarò mai una lettrice telematica.
Così, per caso, c'è stato il mio primo incontro con la fantascienza. Gli Urania di seconda mano che mi portava a casa mio padre, quelli con la copertina di Jacono e le illustrazioni all'interno. Mi sembravano una buona divagazione dai gialli e dai racconti avventurosi, però non è che mi interessasse tanto la parte scientifica - oggi mi è capitato di ritrovare alcuni numeri, e francamente mi viene da ridere, per cui forse non avevo torto. Però sarei scappata di casa con un alieno piuttosto che con un investigatore. Avevo quattordici-quindici anni. Mi sono stufata abbastanza presto, e non ricordo nessun titolo in particolare.
Ma ho ritrovato la fantascienza negli anni Settanta. Adesso i libri li compravo. E gli autori che leggevo in quegli anni sono ancora tra i miei preferiti: Silverberg, Sturgeon, Anderson, LeGuin, Delany, Leiber, Spinrad, Brunner, Zelazny, Vance. Mi piaceva come scrivevano e le storie che scrivevano. Non mi piaceva quel noioso di Asimov. Poi dopo un'entusiasta lettura di Tolkien ho scoperto la fantasy, e soprattutto i romanzi di LeGuin e Leiber: belle storie corpose e coerenti dove la magia funziona come la magia, e bei personaggi. Gli imitatori di Tolkien non mi piacevano, invece: Conan era piuttosto ridicolo, le uniche amazzoni simpatiche erano quelle di Gianluigi Zuddas, e qualche volta parteggiavo per draghi e orchetti. Però queste storie avventurose mi parevano più facili da scrivere, così ci ho provato.
Nel frattempo leggevo, leggevo di tutto, più che altro pareva che la scrittura fosse un'estensione della lettura. Non ho smesso, è sempre il mio gioco preferito.
Insomma sono riuscita a pubblicare qualche racconto, ho vinto qualche premio, sono andata alle convention, mi sono sorbita le polemiche sui poveri scrittori italiani e sulla fantascienza di sinistra e la fantasy di destra, ma mi sono anche divertita. Però quello che mi interessava era unicamente scrivere. L'incanto del raccontare storie. Tutto il resto, pubblicare o non pubblicare, era in un certo senso secondario, anche se ovviamente le storie le racconti agli altri, e non a te stesso.
C'è un sacco di roba che sta ancora nei miei cassetti o meglio nel mio computer. Molta fantasy, poca fantascienza, perché le mie basi culturali - diciamo così - sono mitologia, antropologia e storia. Scrivere fantascienza è più interessante perché la varietà delle storie possibili è più ampia, ma quando inventi qualcosa devi sostenere l'invenzione con qualche conoscenza reale e con il linguaggio adeguato: per esempio scrivendo un romanzo sul tema della telepatia mi sono posta il problema di come possa essere un linguaggio telepatico o meglio di come l'ipotesi della telepatia porti con sé il problema del linguaggio (altrimenti sembra che due telepati parlino al telefonino!) e quindi mi sono letta un paio di saggi sull'argomento. Vorrei dire lo stesso a proposito della fantasy: mica si può cavarsela con i "poteri", e neanche con "l'oscurità".
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