Dalla cellula all'ereditarietà
Tutte le cose viventi sono composte almeno da una cellula. La cellula stessa è un essere vivente, anzi è il minimo livello cui si può considerare l'esistenza della vita come noi la intendiamo. Questo per noi oggi è un concetto del tutto scontato, ma soltanto meno di tre secoli e mezzo or sono l'uomo ignorava l'esistenza dei microrganismi, cellula compresa, con tutto quello che questo significava nei confronti della scienza medica e della conoscenza dei meccanismi che regolano tutti i processi vitali.
Fu nel XVII secolo che, con il progredire della tecnologia ottica e la costruzione dei primi telescopi e microscopi, l'uomo cominciò a indagare l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Così, l'equivalente biologico di Galileo può essere considerato Robert Hooke che nel 1665, utilizzò un microscopio di sua costruzione per osservare il sughero e scoprire che era composto da minuscoli "compartimenti" che lo scienziato paragonò alle celle di un monastero. Per questo decise di chiamarli cellule. Sulla scorta di questa straordinaria esperienza, da quel momento la biologia prese il volo e nell'arco di meno di due secoli i ricercatori giunsero alla conclusione che tutti i tessuti viventi erano composti da "compartimenti" simili a quelli del sughero, ma ripieni di liquido. Questo liquido venne chiamato "protoplasma" o, nell'accezione ormai consolidata, "citoplasma". Fino al 1831, tuttavia, non ci furono indizi che potessero fare pensare ai biologi che la cellula fosse qualcosa di diverso da una semplice sfera di citoplasma.
Le cose cambiarono quando, in quell'anno, il fisico Robert Brown notò all'interno della cellula una struttura grande circa un decimo dell'intera struttura sferica, che sembrava composta da un materiale più denso. Brown decise di chiamare questa formazione "nucleo". La grande difficoltà di studio delle cellule fu dovuta soprattutto alla loro intrinseca trasparenza che non rendeva visibili le loro caratteristiche strutturale interne.
Le ricerche migliorarono quando i biologi scoprirono che era possibile utilizzare determinate sostanze che coloravano solo alcune parti della cellula. Questo accadde negli anni intorno alla metà del XIX secolo. In particolare nel 1879 il tedesco Walther Flemming si accorse che certi coloranti rossi erano in grado di far risaltare del materiale all'interno del nucleo cellulare che il biologo chiamò "cromatina", giusto a sottolineare il fatto che questi granuli erano visibili solo colorandoli. Questo aprì le porte allo studio della divisione cellulare e a tutto quello che ne seguì. Nel frattempo, tuttavia, ad alcune centinaia di chilometri di distanza, un monaco austriaco era già andato molto più avanti, ma nessuno se n'era ancora accorto, semplicemente poiché mancavano ancora le basi biologiche per comprendere che cosa Gregor Johann Mendel aveva scoperto.
La storia degli esperimenti di Mendel è abbastanza nota. Nell'orto del suo monastero, l'abate Mendel incrociava piante di pisello con diversi caratteri (semi gialli o verdi, semi lisci o rugosi, piante dal fusto lungo o piante dal fusto corto) e osservava e registrava scrupolosamente quello che ne veniva fuori.
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