Sin qui il necessario riassunto della sua carriera. Ma è del Fulci che conobbi nell'estate del 1984 che vorrei parlare. Un uomo forse già toccato dalla malattia, ma con l'energia e la vitalità di un adolescente che s'illuminava ogni volta che si parlava di cinema e, soprattutto, di cinema horror. Nel luglio 1984 organizzai incredibilmente al Teatro Comunale di Alessandria (incredibilmente, perché in Alessandria organizzare qualcosa è, chissà perché, di una difficoltà stremante...) una settimana cinematografica dedicata al cinema di Lucio Fulci. L'evento si apriva con un convegno al quale partecipavano, oltre al regista romano, altri noti personaggi come Karel Thole, il disegnatore Silver, Giuseppe Lippi e un certo numero di "addetti ai lavori". Ricordo che, in compagnia di Gian Maria Panizza, mi fiondai a Linate per prelevare Lucio e condurlo nella città grigia. Quando lo vedemmo arrivare tra la folla, ci presentammo un po' intimiditi e, dopo sessanta secondi di civili convenevoli, eccoci a discutere, ancor prima di salire in macchina, di zombi, fantasmi e parapsicologia come tre vecchi amici un po' sciroccati di antica data. Fulci era così: partiva e non lo fermavi. Prima del convegno terrorizzò a tal punto Silver che quest'ultimo si eclissò impaurito e non salì mai sul palco per sedersi al suo fianco. Poi, fiero e indomito rodomonte, s'impadronì del microfono e la storia divenne il convegno "di" Lucio Fulci. A notte fonda con Thole e Lucio ci aggiravamo in una discoteca (chiusa per restauri) sulle cui vetrate i proprietari avevano fatto dipingere scenari horror tratti alla rinfusa dalle mitologie cinematografiche in tema. Come ho già scritto, Lucio, forse, non stava già bene, ma ci costrinse tutti ad andare a letto alle cinque. Il giorno dopo, domenica, lo riaccompagnai all'aeroporto. Come ogni domenica mattina, da una vita a questa parte, mi sentivo così ottenebrato che non trovai di meglio da dirgli come saluto: "Un giorno scriveranno su di te un libro gigantesco", il che mi sembrò una perfetta banalità, giusto da levataccia. Lui mi abbracciò, mi scrisse il suo numero di casa su un pieghevole della manifestazione - che conservo tra i miei cimeli accanto alle copie autografe di Lansdale e apporti dall'altro mondo - e mi disse: "Sentiamoci". Il che non accadde mai per colpa di nessuno.
Ovvio che sono un profeta, ovvio che in quegli anni - tutti freschi dalla "trilogia della morte" - in molti eravamo certi che su Fulci sarebbe stato scritto ben più di un libro solo. Molti all'estero, tanti articoli, il testo di Romagnoli L'occhio del testimone edito da Granata nel '92, ma si è dovuto attendere il 2004 per ritrovare, almeno da parte mia, la stessa emozione provata vent'anni fa al cospetto dell'uomo. Perché in questo "gigantesco" (con tutte le sfumature implicite della parola) libro che s'intitola Il terrorista dei generi, parla proprio lui, Lucio, saltando ancora "fuori dalle pagine" come saltava dalla scena durante i convegni quando qualcuno o qualcosa gli facevano girare le palle. Lo firmano il vicentino Paolo Albiero, docente di psicologia all'Università di Padova, e Giacomo Cacciatore, scrittore e giornalista del Sud che dei meccanismi dell'horror s'intende come pochi altri al mondo. In questa opera, che è veramente imponente quanto minuziosa (quattrocento pagine formato "Variety"), gli autori con commovente umiltà si tirano in disparte per lasciare spazio alla voce, diretta o indiretta, del regista. Il risultato è un appassionante, straordinario reportage che ricostruisce nei dettagli film e carriera, alti e bassi, meccanismi e mafiette, i particolari di un mondo visto dall'interno, la passione viscerale per i grandi generi popolari: un cinema italiano che oggi non è più e che ha diffuso spore in tutto il mondo. Nonostante la mole, Il terrorista dei generi (Edizioni Un mondo a parte, Roma) è libro che si legge d'un fiato e quasi con ansia d'anticipazione, perché la storia di quel cinema pioneristico - che si faceva, come dicono a Roma, con la pizza e i fichi - e "artigianale" (Lucio andava fiero di tale definizione) risulta appassionante quanto un thriller del miglior Harris, perché la vita, quando è intensamente vissuta e votata alla ricerca dell'indelebilità, è proprio un vero thriller che coinvolge sensi, anime e psichismo collettivo. Poi andiamo al cinema a vedere Tarantino e scopriamo che "dentro", nel DNA filmico, c'è parecchio Fulci, oltre a tanto altro cinema italiano: allora abbiamo bisogno di confrontarci con lui e di andare a verificare quanto "fulciana" sia quella maledetta "Paula Schultz"di Kill Bill, sepolta viva, e si riapre il libro, perché, parafrasando l'introduzione di Antonella, Paolo Albieri e Giacomo Cacciatore non hanno scritto un libro su Fulci, ma "il" libro "di" Fulci. In altre parole, "sono diventati lui", come certi professionisti kinghiani della parola, ridandogli la vita con amore e rispetto.
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