Era tempo di uscire da quella gabbia: pazzi o sani di mente, poco importava, ma vivi fra i vivi sotto il padiglione del cielo.
Scendeva a piedi verso la Midtown incrociando nella folla distratta con l'animo sereno di un fanciullo. Andava da un semaforo all'altro, agile e ossuto, i capelli neri ancora umidi, ben protetto dal giubbone trapunto, dai Levi's, dagli scarponcini scamosciati. Nelle strade persisteva una luminosità ambigua - da fondale marino - le ultime tracce di neve sporca in disfacimento ai bordi dei marciapiedi, le gocce di pioggia come perle enormi sui cofani delle automobili in sosta.
In alto, più in alto delle guglie dell'Empire e del Chrysler, sopra le piatte terrazze gemelle del World Trade, in quella sorta di fiume astratto e vaporoso che gli ultimi piani delle costruzioni minacciavano di soffocare - il cielo - qualcosa sembrava attendere oltre le nubi. Forse l'amore, pensò Byrne. Sospirando, riprese a camminare nella grigia Ottava Strada.
Adesso a consolarlo c'erano lo zafferano dei taxi, il rosso lacca dei veicoli dei pompieri, il latte-ed-ebano delle macchine della polizia... in movimento da destra verso sinistra, ai limiti del suo campo visuale. E accanto ai segnali visivi, i segnali sonori. Le prime battute del tradizionale concerto di clacson gli giunsero da molto lontano, a nord, verso Columbus Circle.
Tuttavia non erano né il colore, né il rumore a dare una fisionomia alla città... non quanto gli edifici - Liberty, Déco, Neogotici, in vetroacciaio - e il cibo. Immaginario nelle scritte luminose, teorico sulle lavagnette scarabocchiate in fretta e furia ed esposte nelle vetrine delle tavole calde (bevete Coca-Cola, bevete Pepsi, bevete...), concreto nella sua totale materialità su piatti e vassoi, in contenitori di plastica e cartone, solido e liquido, melma calda e gelatina fredda e dolce e piccante.
Hot Dogs!
Pretzel!
Hamburger!
Pizza!
Spaghetti!
Shrimps Clams & Shells!
...!
(Possibilità, molte; com'era giusto che fosse).
Mezz'ora più tardi attraversava un incrocio ingorgato - fra Broadway e la Trentanovesima. Luminaria di fanalini di posizione nella colata del traffico, mentre l'oscurità s'infittiva e il tardo pomeriggio cedeva il passo alla sera.
Che fare, prima di tornarsene alla propria tana? Anche qui, le possibilità scintillavano numerose.
Vedere un film.
Acquistare un libro / giornale.
Cercare compagnia (sulla Settima).
Ingoiare un'aspirina.
Oppure, infilarsi dentro un edificio, e ordinare del cibo.
D'improvviso, Byrne si trovò fra i battenti scorrevoli di una doppia porta a vetri. I suoni-immagini della strada erano scomparsi.
Avanzava fra i tavoli di un caffè-gelateria in un silenzio onirico, scremato d'ogni minimo rumore... come il brusio della conversazione, o il tintinnare dei cucchiaini sulla porcellana. I presenti non lo degnarono d'uno sguardo quando passò loro in mezzo, dirigendosi al bancone. Pietrificati davanti ai loro vassoi c'erano studenti, impiegati, commercianti, signore delle buona società, neri, inqualificabili - poliziotti in borghese? giornalisti/fotografi? ruffiani?... un marinaio. Qualcuno teneva un tascabile nuovo di zecca o una lucente copia di Time vicino alla tazza ormai fredda. L'ultimo grido in fatto di amuleti, rifletté Byrne.
Al banco optò per il limone fragola senza panna, e fece scivolare tre dollari - un biglietto da due, un biglietto da uno - fra le dita della ragazza in uniforme e bustina. Il registratore di cassa gorgheggiò come un usignolo innamorato, il resto da cinque centesimi finì in una tasca dei jeans.
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