Il Marte di Dick è un pianeta in cui la promessa liberatoria degli spazi sconfinati si è ridotta a speculazioni edilizie andate a male, in cui sopravvive la macilenta (e tremendamente sarcastica nei beffardi sguardi che rivolge ai terrestri) civiltà marziana dei Bleekmen (un po' nativi americani, un po' afroamericani pressochè in schiavitù), e in cui domina una corruzione generalizzata che giunge (nei momenti visionari offerti dal bambino autistico Manfred) a toccare le leggi più profonde dell'universo. Nonostante tutto, rimane l'incancellabile dignità del colono comune, lontano dai meccanismi di potere.
Questa dignità è anche la risorsa che permette la sopravvivenza delle vittime di Palmer Eldritch, il magnate interplanetario che, attraverso la sua droga devastante, vuole trasformare tutti gli altri in copie di sé stesso. Questo è un mondo che ha degradato il sogno dei pionieri in un surrogato delle case della bambola Barbie; i coloni marziani, anche nei loro momenti migliori, sopportano la loro condizione di isolamento immergendosi, ancora con ausili chimici, in un'illusione di socialità piccolo-borghese, con "famiglie della porta accanto" in versione robotica. Nel constatare la fine del sogno americano, si riafferma la giustezza delle motivazioni che avevano portato il sognatore ad attraversare lo spazio.
Di sogni da continuare a catturare parla tutta la generazione della new wave, in dialogo con la controcultura giovanile, anche con autori inglesi come Michael Moorcock, Ian Watson e D. G. Compton, e più occasionalmente J. G. Ballard.
Pensiamo a A Rose for Ecclesiastes (Una rosa per l'Ecclesiaste, 1963) di Roger Zelazny. Anche qui c'è un mito da mantenere vivo, quello di un'antica profezia marziana su un figlio portato da uno straniero. Mentre molti dei maschi marziani, divenuti sterili, si stanno lasciando morire, un poeta e linguista terrestre esaudisce la profezia, ma non potrà godere del suo sogno di comunicazione interpersonale e artistica.
Pensiamo a In the Hall of Martian Kings (Nella sala dei re marziani, 1977) di John Varley, che è dall'inizio alla fine un omaggio ai vecchi sogni letterari della SF, con l'equipaggio della navetta Podkayne in attesa di soccorso da parte dell'astronave madre Edgar Rice Burroughs, salvato dall'antica popolazione autoctono. Trasformato radicalmente, il gruppo abbandonerà i legami con gli USA e con la Terra.
E anche il cupo romanzo Man Plus (Uomo più, 1976) di Frederik Pohl è una risposta al Marte di Burroughs: "Da bambino era cresciuto sul [...] Barsoom pieno di colori [...]. Crescendo, aveva imparato a distinguere i fatti dalla finzione". Da un lato, il protagonista è la vittima di una violenza inenarrabile, che gli cambia il corpo e la fisiologia per renderli compatibili con la vita su Marte. Dall'altro, a Roger Torraway è concessa una libertà che nessun altro esploratore ha mai avuto. Diventare marziano, per lui, significa diventare cyborg.
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