"Ho sempre voluto vedere un marziano", disse Michael. "Dove sono, papà? Me l'hai promesso!""Eccoli", disse papà, mettendosi Michael sulle spalle e indicando verso il basso.
Ecco i marziani. Timothy cominciò ad avere i brividi.
Ecco i marziani - nel canale - riflessi in acqua. Timothy, Michael, Robert e mamma e papà.
I marziani restituirono loro lo sguardo per un lungo, lungo momento, in silenzio, dall'acqua increspata...
Nel passato marziano e terrestre, le Cronache di Bradbury cercavano e trovavano l'infanzia, una "autenticità" cancellata dal progresso scientifico - una visione nostalgica e "umanistica" condivisa, in Inghilterra, dal Marte di Lontano dal pianeta silenzioso di C. S. Lewis.
Marte, però, può essere il luogo di una rinnovata vitalità legata, invece, all'espansione tecnologica: e l'evento da aggiornare per l'era spaziale diventa la Rivoluzione americana. Pensiamo a The Martian Way (Il destino di Marte, 1952) di Isaac Asimov; in presenza di una Terra dittatoriale, i coloni ottengono il ghiaccio dagli anelli di Saturno, ovvero la risorsa che ne consentirà la sopravvivenza, e dichiarano l'indipendenza. Un modello che sarà seguito, per esempio, in Outpost Mars (Lago del sole, 1953) di Cyril Judd (ovvero Judith Merril e C. M. Kornbluth). E in Red Planet di Heinlein (Pianeta rosso, 1949), in cui si dichiara l'indipendenza dalla compagnia privata che possiede le risorse marziane, sempre con un tocco di romanticismo (la saggezza e i misteriosi poteri degli antichi): una rivoluzione raccontata attraverso gli occhi di un ragazzo. In queste storie, come sempre nel discorso della Frontiera, Marte rappresenza la valvola di sicurezza in grado di garantire l'umanità contro i rischi di autodistruzione causati da decadenza, guerra o disastro ecologico. Anche il classico inglese The Sands of Mars (Le sabbie di Marte, 1951), di Arthur C. Clarke, si inserisce in questa tradizione, con un tocco di ottimismo scientifico da hard SF realistica: i coloni che scoprono le residue forme di vita indigene e che come loro si arrabattano per costruirsi uno spazio di sopravvivenza, fino a ottenere l'autonomia dalla Terra.
Fra i tanti racconti che nel dopoguerra tornano alla materia marziana, ne vorrei ricordare due, entrambi con limitate ambizioni di accuratezza scientifica, ma con la consapevolezza del lavoro accumulato dai loro antecedenti letterari. Crucifixus Etiam di Walter M. Miller (1953) vede in Marte l'occasione per il riformarsi di quel crogiolo interrazziale e interculturale con cui l'America ha voluto identificare la propria immagine di grandezza-una grandezza che, con un poco di malafede, darà un senso agli squilibri sociali che vi si perpetueranno. Così, la manodopera peruviana, portata su Marte per operare in condizioni simili all'altitudine del loro paese, accetterà con rassegnazione il suo destino, parte del grande destino dell'umanità che attraverso il terraforming trionferà sul sistema solare
E lo Enchanted Village (Villaggio incantato, 1950) di A. E. Van Vogt, col suo improbabile lamarckismo di ritorno (la subitanea trasformazione di una fisiologia terrestre in aliena) sembra ironicamente dire, non sentiamoci troppo legati alle origini biologiche o "razziali": marziani si diventa... e ciò non è motivo di disperazione.
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