Se Wells rende concepibile Marte, Burroughs lo rende visibile. Nella sua abilità di fare del paesaggio naturale e (xeno-)etnografico l'elemento centrale delle sue narrazioni, sta la chiave del suo artigianato. Non è poco.
Dai muschi giallastri su cui John Carter si risveglia, alle creature superiori con cui si incontra/scontra quasi subito, Burroughs costruisce, un pezzo alla volta, un intero ecosistema, caotico, ridondante, eccessivo, senza troppe preoccupazioni di coerenza scientifica: quello che conta sono i colori, la diversità, la molteplicità: gli uccelli giganti malagor, gli erbivori thoat (con otto zampe, a volte domestici, a volte no) e zitidar e gli enormi apt. Il principio di accumulazione viene letteralizzato nel moltiplicarsi del numero degli arti: dai bianchi e scimmieschi quadrumani nemici naturali della specie verde ai calot simili a cani o ai banth simili a leoni, entrambi con dieci zampe. Altrettanto multiforme è la tecnologia dei Marziani, esemplificata soprattutto (purtroppo) negli armamenti, che comprendono sia armi da taglio (lance, spade, coltelli) sia sofisticatissimi fucili a raggi, e altrove si parlerà anche di vascelli spaziali: i Barsoomiani rossi stanno in parte ricostruendo l'antichissima civiltà crollata millenni prima, con prosciugarsi dei mari. Al posto della coerenza storica o antropologica, abbiamo la praticità di un repertorio sempre al servizio dell'avventura-un'avventura che ricapitola tutte le forme di romanzo d'intrattenimento che la precedono. In fondo, con la loro eccezionale longevità, i Marziani sono allo stesso tempo esseri antichissimi e ipermoderni, che giustificano gli anacronismi che li circondano.
Per Carter, i problemi di comunicazione linguistica sono risolti facendo ricorso alla telepatia. D'altra parte, dice Burroughs, i Barsoomiani sono gente di poche parole; non c'è necessità di costruirli come individui: è di maschere che si tratta, che aggiornano le figure tipiche esplorate nel western e nell'esotico coloniale orientaleggiante, e i loro tratti saranno ancora sfruttati in tante opere ambientate su Venere o su Giove, al centro della Terra o in Africa. Difficile in effetti attribuire il ciclo di Barsoom alla SF pura, e quando The Master Mind of Mars prova ad accentuare questo elemento, enfatizza gli occasionali momenti di technobabble (fatto di "motori al radio", "interruttori magnetici" e di "ottav o" e "nono raggio" di energia solare) che non aggiungono molto alla storia. Ma al repertorio marziano Burroughs continuerà sempre a tornare (forse anche stimolato dalla rivalità con imitatori come Otis Adelbert Kline), con lo stesso protagonista e altri (come il figlio Carthoris, protagonista in Thuvia, Maid of Mars): nel 1940, Llana of Gathol annuncerà la presenza di regioni di Barsoom inesplorate da Carter, e nuove avventure seguiranno.
Per concludere, ecco l'elenco dei romanzi Barsoomiani di Burroughs (la prima data è quella della pubblicazione su rivista):
Under the Moons of Mars (1912 - A Princess of Mars, 1917)
The Gods of Mars (1912 - 1918)
The Warlord of Mars (1913-14 - 1919)
Thuvia, Maid of Mars (1916 - 1920)
The Chessmen of Mars (1922)
The Master Mind of Mars (1928)
Swords of Mars (1936)
Synthetic Men of Mars (1940)
Llana of Gathol (1941 - 1948)
John Carter of Mars (1941-43 - 1964)
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