Un po' di campanilismo spaziale
Dal 1968 a oggi, l'Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha progettato e gestito una ventina di missioni scientifiche, ma nessuna finora era stata destinata a visitare un pianeta del Sistema Solare. Le prime missioni del 1968 (ESRO 1A, 1B e 2B) avevano avuto come oggetto lo studio dei raggi cosmici, dei raggi-X provenienti dal Sole e della ionosfera, e quelle seguenti avevano seguito lo stesso filone di ricerca, studio di raggi gamma, della magnetosfera terrestre, di raggi-X cosmici eccetera. Erano missioni importanti e interessanti, ma sostanzialmente per addetti ai lavori. Si dovette attendere fino al 1985, perché il programma scientifico dell'ESA saltasse agli occhi del grande pubblico con la sonda Giotto che, nel 1986 fece il suo celebre incontro ravvicinato con la Cometa di Halley. Poi vennero l'Hubble Space Telescope in collaborazione con la NASA, le sonde Ulysse (1990, ancora in attività) e SOHO (1995, ancora in attività) per lo studio del sole e la Cassini, lanciata nel 1997 e destinata allo studio di Saturno e della sua luna principale, Titano, su cui giungerà nell'estate prossima.
Ma, in attesa di quest'altro sensazionale appuntamento, nel carniere mancavano ancora i pianeti. Perché dunque non sfruttare la favorevolissima posizione orbitale che ha portato la Terra e Marte alla loro minima distanza alla fine dell'agosto scorso? Ci sarebbero voluti almeno altri quindici anni per avere di nuovo condizioni così buone.
Così l'ESA ha varato la Mars Express, una missione "veloce", che lanciata il 2 giugno dal cosmodromo di Baikonur in Russia, ha raggiunto il Pianeta Rosso già negli ultimi giorni del 2003, dopo meno di sette mesi di viaggio. L'obiettivo, come si diceva, era proprio rispondere una volta per tutte all'annoso interrogativo sulla presenza, nel presente o nel passato, dell'acqua. A questo scopo, la Mars Express è stata dotata di sette sofisticati strumenti in grado di analizzare dall'orbita il suolo di Marte. Tra questi il radar/altimetro chiamato MARSIS, costruito in Italia e gestito da un team scientifico dell'Università "La Sapienza" di Roma, può sondare il terreno del pianeta fino a cinque chilometri di profondità grazie all'analisi dell'eco determinato dalla riflessione di onde a bassissima frequenza nei diversi strati delle sottosuolo.
Altro strumento italiano è il PFS (Planetary Fourier Spectrometer), gestito dall'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario del CNR di Roma che è in grado di sezionare l'atmosfera marziana, cercando di capirne meglio composizione e dinamica. Insostituibile nella ricerca dell'acqua è invece OMEGA, lo spettrometro mineralogico all'infrarosso, che in effetti, già dalle prime riprese, ha fatto centro e ha trovato la conferma della presenza di acqua sotto forma di ghiaccio nel polo sud del Pianeta.
Infine non possiamo non citare la cosiddetta HRSC (High Resolution Stereo Camera), una videocamera ad altissima risoluzione in grado di riprendere immagini tridimensionali. Lo scopo di questo strumento è di fare una mappa tridimensionale di tutto il pianeta con un'accuratezza mai raggiunta prima. Ma la missione Mars Express prevedeva anche qualcos'altro. Una missione che, purtroppo, oggi sappiamo non essere andata per il verso giusto. Parliamo del Beagle 2, così chiamato in onore della nave a bordo della quale Charles Darwin circumnavigò il globo terrestre tra il 1831 e il 1836. Il Beagle 2 era il modulo di atterraggio che liberato dal suo abbraccio con la Mars Express proprio lo scorso Natale, avrebbe dovuto raggiungere la superficie del pianeta nella zona di Isidis Planitia. Il condizionale è d'obbligo perché dal Beagle 2 nessun segnale è mai stato ricevuto e nessuno di preciso sa che cosa sia andato storto.
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