aneddoti di

Vittorio Curtoni

Memories of green Una dichiarazione d'amore


Non sappiamo se Delos sia entrato nella storia della fantascienza italiana, ma sicuramente la storia della fantascienza italiana è entrata in Delos. Vittorio Curtoni, già direttore delle mitiche riviste Robot e Aliens - e comunque un bel po' mitico già di suo - ha accettato di portare sulle nostre pagine una collezione di gustosi aneddoti del fandom e dell'editoria italiana. Ah, per sua volontà, il sottotitolo di questa rubrica è "i farneticanti ricordi del vecchio vic". Almeno sapete cosa aspettarvi...

Questo mese, eseguendo un'operazione tipica della fantascienza, tenterò di creare per i miei cinque lettori (be', tre; non vorrei che don Lisander si arrabbiasse) un mondo che non esiste. Per essere precisi, che non esiste più, e che con ogni proabilità pochissimi di voi hanno conosciuto, per ragioni o anagrafiche o geografiche.

Sto parlando del mondo della provincia rurale italiana negli anni Cinquanta. Io sono, è noto, un vecchiaccio: sono nato nel 1949 in un paesello della pianura padana più radicale, San Pietro in Cerro, a due passi da Cortemaggiore, l'epicentro della benzina italiana negli anni del boom. La benzina del cagnone a sei zampe (o erano otto?), con la fiamma che gli esce dalla bocca, che per tanto tempo ha ornato le quarte di copertina di "Urania". A San Pietro in Cerro sono rimasto poco. Mio padre, segretario comunale, è stato trasferito a Morfasso, un paese delle montagne del piacentino, dove ho frequentato l'asilo e le scuole elementari. Poi ci siamo spostati a Bobbio, ma questa è davvero un'altra storia.

Morfasso era ed è un posto splendido, uno di quei paradisi naturali che magari qualcuno ha visto solo al cinema o in fotografia. Ricordo le nevicate tanto abbondanti da bloccare il portone del comune per un paio di giorni; ricordo gli splendidi, assolati pomeriggi d'estate trascorsi coi miei amici, tutti figli di contadini, a pascolare vacche su pendii più verdi del verde; ricordo gli autunni in cerca di funghi, le quintalate di porcini e ovuli (ragazzi, se non li avete mai assaggiati non sapete cosa siano le delizie del palato) che portavamo a casa. Ricordo un'infinità di meraviglie indubbiamente legate alla nostalgia dei bei tempi andati, ma del resto chi non ha nel proprio corredo esistenziale l'equivalente della mia Morfasso?

L'unico svantaggio di quel paese era il suo splendido isolamento: su strade rigorosamente in ghiaia, tra curve da voltastomaco, era un'impresa arrivare in città. Non esisteva un'edicola. Il cinema era gestito dal prete; funzionava solo la domenica sera, e più che film tipo il ciclo di Don Camillo e Peppone o "Marcellino pane e vino" non proiettava. La televisione, in bianco e nero e con un solo canale, era un lusso che pochi potevano permettersi, e comunque ciò che offriva era poco e scarsamente divertente, almeno per i miei gusti. Niente computer. Niente videogames.

Niente impianti stereo. Niente Internet. A dire il vero, in casa non avevamo nemmeno il telefono. Niente di niente. Ve lo potete immaginare? Lo so, dev'essere uno sforzo mostruoso per chi è nato e cresciuto negli ultimi decenni, ma provate. Tentate. Forse una vaga idea riuscite a farvela.

In un contesto del genere, la mia fantasia è stata salvata soprattutto dai libri, che a dio piacendo in casa mia non mancavano, sicché dalla più tenera età ho cominciato a nutrirmi di Verne, Stevenson, e ovviamente degli odiati "Pinocchio" e "Cuore", spietatamente imposti all'epoca per default a tutti i bravi bimbi d'Italia. A Poe e Wells sono arrivato più tardi, quando stavo a Bobbio: che emozione dirompente!

Ma più di tutto mi ha salvato "Urania", che mio padre comperava abbastanza regolarmente e che mi è stato permesso leggere dall'età di nove anni. Prima mi fu detto che ero troppo piccolo per certe cose. Quali fossero, non l'ho mai capito: se esisteva una pubblicazione pudibonda era quella. Anche se ricordo sempre con enorme piacere il fatto che, sui bollettini affissi in chiesa e prodotti da un accidente di centro cattolico del quale non ricordo più il nome, "Urania" era contraddistinta dal giudizio "Esige cautela".

Wow! Io potevo leggere, e non di nascosto, una cosa che per i preti esigeva cautela! La goduria.

Comunque... Sulle copertine di Kurt Caesar, su quei suoi affascinanti verdi e gialli, sui suoi pianeti, i suoi robot, i suoi missili, avevo cominciato a sognare gia' molto prima dei nove anni; e quando finalmente ebbi il permesso di tuffarmi nella marea della strana, affascinante cosa che si chiamava fantascienza arrivai ai miei primi orgasmi mentali. Il romanzo che, per così dire, mi sverginò fu "SOS dischi volanti" di un certo Wallisfurt, un autore tedesco non certo memorabile; e se è vero che di quel libro ho dimenticato tutto, non potrò mai scordare l'impatto che ebbe su me. Poi, via coi grandi classici degli autori che imparavo gradualmente a conoscere: Heinlein, Van Vogt (che mi faceva delirare di gioia, anche se mi dava l'impressione di essere completamente idiota), Simak, Sturgeon, Dick, e chi più ne ha più ne metta.

Da Morfasso, provincia di Piacenza, estrema periferia dell'universo noto e ignoto; dal vuoto tecnologico, informatico, mediatico che era allora la norma, io potevo partire per viaggi sterminati, approdare a terre che solo quegli scrittori conoscevano, vivere storie che per la mia realtà quotidiana erano del tutto impensabili. Ecco cos'è stata per me, e per molti anni (direi come minimo fino a dopo l'adolescenza) la fantascienza: un biglietto d'ingresso privilegiato per accedere alle quinte dell'universo, conoscere i grandi segreti. Era la liberazione, la via di fuga, l'avventura esaltante. Era una filosofia di vita: una tesi, questa, che ho continuato a sostenere fino agli anni del liceo, deriso e sbeffeggiato dalla massa di zotici che nulla sapevano di queste meraviglie e mi consideravano un povero rimbambito. L'idiota del villaggio. Stolti, infedeli. Non sapevano cosa si perdessero, e probabilmente non lo sanno nemmeno oggi.

Non so se ai nostri giorni sia ancora possibile un'adesione così viscerale, intima, totale alla narrativa di fantascienza, o a qualunque altro tipo di narrativa. Ne dubito. I bambini d'oggi nascono circondati da miliardi di messaggi di vario tipo e origine, multicolori, sgargianti, spesso urlati a squarciagola; hanno attorno un mondo gigantesco di sollecitazioni, davvero un universo multimediale nel quale vengono immersi subito dopo avere emesso il primo vagito. Per me (e non solo per me; questo particolare rapporto con la sf è condiviso per lo meno da molti altri autori italiani, amici carissimi della mia generazione o anche con qualche annetto in più sulle spalle, vero bisnonno Renato? :) la fantascienza era TUTTO, o quasi. Di certo era la cosa più significativa, divertente, stimolante che avessi attorno. Più della realtà. Più del mondo oggettivo che era sì fulgido di bellezze naturali, ricco di giochi, di amicizie, ma intellettualmente povero per ragioni strutturali intrinseche. Col tempo, purtroppo, la magia si è spezzata: uno cresce, e per quanto disperatamente cerchi di tenersi attaccato alle cose migliori del proprio passato, cambia. Deve cambiare, se no sarebbe una barba infinita. Nel mio caso, oltre tutto, c'è l'aggravante che dal 1970 in poi la fantascienza è diventata, in varie forme, una professione, e quando una passione si trasforma in lavoro, prima o poi subentra la noia. La ripetitività. Talora l'odio, anche se per fortuna a me non è accaduta quest'ultima metamorfosi. Ma chiaramente non riesco più a sognare con un'adesione così accanita nemmeno sul più amato dei romanzi.

Tempo fa ho scritto, nella mailing list dedicata alla fantascienza, che a mio giudizio la sf dovrebbe servire anche a dare a chi la ama e la pratica con continuità una visione universale delle cose, una prospettiva cosmica che sia capace di staccarsi dal piccolo insignificante granello di sabbia che è il nostro pianeta. Questa mia asserzione è stata criticata, contestata, non condivisa. Che posso dire? Che mi dispiace molto per tutti quelli che, pur appassionati di sf, non hanno vissuto la mia stessa esperienza totalizzante e non sono giunti alla mia conclusione. Per me la sf è stata davvero la chiave d'accesso a una visuale cosmica, e se anche oggi non sono più capace di cullarmi nello stesso trasporto di quei giorni, il sentimento, la sensazione sono rimasti nettissimi in me. Hanno contribuito a fare di me l'uomo che sono, per quel poco che posso valere.

Certo avranno contribuito anche alla stratificazione dei miei numerosissimi difetti, ma direi che questo è un effetto collaterale inevitabile di ogni esperienza così estrema.

La fantascienza è stata e rimane il primo grande amore della mia vita. Ogni tanto l'ho cornificata, ogni tanto ne sono stato cornificato, ma quanto le voglio ancora bene! Spero di essere riuscito a spiegarlo in questo monologo ai limiti del delirio. Abbiate pietà: che vi volete aspettare da uno che ambisce alla prospettiva cosmica?



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