Un appassionato di fantascienza dovrebbe essere agevolato a pensare in verticale, eppure non sempre ciò succede. Penso a me stesso, che, stoltamente, ho vissuto 34 anni senza staccare gli occhi dall'orizzonte. E adesso che l'ho fatto, da un lato mi maledico e dall'altro mi consolo. Ma intendiamoci, quando parlo di "staccare gli occhi dall'orizzonte", non intendo essere intellettualmente interessato all'astronomia e alle discipline a essa correlate. Parlo proprio di tirare su la punta del naso almeno di 45°. Ero molto piccolo quando qualcuno mi regalò Il libro del cielo. Non ricordo l'editore, ma quel volume, divorato dalla curiosità e consumato dal fascino che quelle fotografie esercitavano su di me, occupa un posto speciale nella mia memoria. Poi c'erano stati Star Trek e Spazio 1999 e, nonostante la finzione, il magnetismo dello spazio era aumentato. Eppure, benché allora non me ne rendessi conto, lo spazio sarebbe stato destinato a restare qualcosa di alieno per molto tempo ancora. E non posso escludere che lo sarebbe stato per sempre, se non avessi colto l'occasione di rimediare solo qualche mese fa. Ma non precorriamo i tempi.
Vennero dunque gli studi scientifici, i libri di divulgazione, le riviste specializzate, ma perfino dopo l'approfondimento e la scrittura di articoli sull'argomento, l'universo è sempre rimasto un concetto emotivamente distante. In fin dei conti le meravigliose immagini riprese dalle sonde Voyager non erano molto diverse dagli sfondi su cui si muoveva la Base Lunare Alpha. Anche le fotografie inviate più di recente dal Mars Pathfinder e dal suo fido rover Sojourner, erano qualcosa che, pur nella suggestione di quel cielo che era davvero a metà strada tra il rosa e l'arancione come dicevano gli scrittori, possedeva un'essenza artificiosa. E non si deve pensare sia mai stata una questione di qualità delle immagini. In realtà è un problema di mediazione. Prendiamo ad esempio le fantastiche immagini catturate dal Telescopio Spaziale Hubble, fotografie di nebulose lontane, di galassie a spirale vecchie miliardi di anni, ammassi stellari e quasar di proporzioni inimmaginabili. Sul sito ufficiale è disponibile una galleria di immagini da far venire i brividi. Eppure mi rendo conto che la mia reazione non è molto diversa da quella che ho avuto di fronte alle autostrade di Minority Report. Personalmente mi accorgo di essere portato a reagire alle copertine di Le Stelle, la nuova bellissima rivista diretta da Margherita Hack e Corrado Lamberti, come di fronte a uno stupefacente effetto speciale. So che sono autentiche. So che quell'incredibile cosa stampata lì, esiste (o esisteva) davvero da qualche parte, a qualche milione di anni luce di distanza da noi. Eppure non gli do la prospettiva intellettuale ed emotiva che meriterebbe, come se fosse la scenografia di un film.
Ne ho avuto un'ulteriore conferma nei giorni scorsi quando, mentre il Beagle2 arrancava nelle sabbie mobili di un probabile fallimento, il rover Spirit mandava a Terra le prime splendide immagini del suolo marziano, addirittura in 3D. Quello è Marte, che diamine! Quella distesa di pietre brunite in quel panorama piatto, con quel cielo così diverso dal nostro, sta davvero su un altro pianeta, a una distanza di milioni e milioni di chilometri da noi. Eppure, ancora una volta ho avvertito quella disdicevole sensazione che ho battezzato Sindrome di Spielberg: cinque miliardi e rotti di batteri che si dannano l'anima su una pallina da golf per un atomo di pane e non si rendono davvero conto delle meraviglie del campo su cui stanno giocando. A pensarci bene è una cosa da pazzi.
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