D'improvviso lo colpì un freddo alito di vento, e subito iniziò a sollevarsi il pulviscolo, cosicché Altux comprese che sarebbe stato meglio fare ritorno, perché quelle erano le avvisaglie della tempesta.
Non fece in tempo: il vento divenne minaccioso, la sabbia riempì l'aria.
Il reverendo si arrestò, sbarrò gli occhi, smise di pregare e rimase incantato a guardare mentre la polvere gli bruciava gli occhi: nell'antico cielo ora troneggiava una luce, come un diadema di stelle.
Altux si inginocchiò nella tempesta di vento, senza capire, e la fiamma stellata subito volò via nella notte, nel buio lontano dell'universo, e svanì.
Sentì il cuore che batteva forte e si accorse di avere la corona fra le mani giunte mentre il vento si placava, la sabbia ricadeva.
Tornarono a splendere gli astri, placidi, le stelle di ogni notte. Il sacerdote si rialzò e rimase fermo, gli occhi brucianti e il cappotto scuro imbrattato dalla polvere. Le ombre dei macigni riposavano nella luce di Deimos l'argenteo, alto nel cielo. Altux prese a spazzolarsi il cappotto senza pensare; la mano scuoteva la stoffa mentre gli occhi guardavano il deserto attorno.
Tutto era tranquillo.
Infine, lentamente, decise di tornare sui suoi passi, inquieto, domandandosi dove in realtà si trovasse; temeva di aver perso l'orientamento, ma alla fine vide le piccole luci del villaggio che tremolavano all'orizzonte.
Quando giunse alla canonica, il paesino dormiva. Altux sedette sulla panca in fondo alla chiesa, accarezzò il legno dalle venature chiare e ricordò che l'indomani era domenica e che alle undici ci sarebbe stata la messa solenne.
Si coricò fra le coperte fredde, che lentamente si intiepidirono. Rifletté a lungo sull'avventura che aveva vissuto. Non riusciva a trovare una spiegazione nemmeno per le cose più semplici: addirittura non capiva perché avesse deciso di avventurarsi nel deserto.
Eppure si sentiva calmo e fiducioso, e si addormentò.
Alle dieci e cinque della mattina, i chierichetti oltrepassarono l'uscio cigolante proprio mentre il reverendo scendeva nella cappella.
- Sei guarito, Sergej? - fece il sacerdote con un sorriso di sorpresa.
- Sì, reverendo. - Il ragazzo tirò su col naso. - Era solo un po' di raffreddore.
Altux pensò con sollievo che il medico aveva sbagliato diagnosi.
- Leggiamo noi il vangelo, oggi?
- Sì, certo.
- Di quale brano si tratta?
- Di quello che parla della fede che sposta le montagne. Lo conoscete già?
- Sì, l'ho già letto - fece Milkhail.
- Bene. Venite su, a leggerlo ancora.
- Prima dobbiamo suonare le campane! - gridò Sergej.
Altux sorrise. - Oh, certo - disse.
Alla messa c'erano tutti, o quasi. C'erano i cattolici, i protestanti, gli ortodossi e uno che si diceva buddista.
Ad Altux non importava. Pensava che tutti fossero figli dello stesso Dio e che tutti fossero diversi: per questo ciascuno vedeva il Padre a modo suo. Era giusto. Una sola cosa importava al reverendo Altux: che tutti si amassero e rispettassero a vicenda.
Guardò le file dei volti, tutti diversi e tutti tristi, e sentì che la fede dopo tanto tempo tornava a vivere in lui. Non riusciva a spiegarlo: gli cresceva dentro come una marea che sale e sale.
Così la sua predica fu piena di speranza. - ...Noi pensiamo che Marte sia grande - disse. - Però se salissimo sulla montagna più alta, sulla Nix Olimpica, il nostro sguardo abbraccerebbe mezzo pianeta. Così capiamo che Marte è piccolo. E se Marte è piccolo noi... - Guardò le file di teste, di occhi. - Noi siamo grandi, se capiamo quanto siamo piccoli... - Predicando il sacerdote si infervorava, gesticolava. Poi si accorse di avere parlato molto e si accinse a concludere. - La sofferenza, la disperazione hanno segnato questi nostri ultimi anni. Forse non abbiamo pregato, non ci siamo inchinati abbastanza. Abbiamo viaggiato nel cosmo, fra le stelle e ci siamo creduti grandi quanto Dio... Questa sera faremo un pellegrinaggio. Andremo tutti nel deserto e pregheremo tutti insieme. Dobbiamo andare tutti. Io ve lo chiedo.
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